il foglio del weekend

Il falò della libertà

Micol Flammini

Il regista Evgeny Afineevsky racconta il suo viaggio nel sottosuolo dell’Ucraina, dove il popolo dei vivi combatte contro l’esercito dei morti

In una cantina molto affollata ma non riscaldata, un gruppo di ragazzi non riesce a smettere di ridere. Sono tutti molto vestiti, hanno addosso le coperte, i cappelli, i guanti, sono tutti vicinissimi. Fuori c’è la guerra, c’è un freddo ancora più pungente di quello che percepiscono nella cantina, il sottosuolo che si è fatto rifugio, che è diventata un palcoscenico improvvisato su cui si esibisce un comico, Ilya Ghishenko. La guerra in Ucraina è incominciata da qualche settimana e mentre i ragazzi si fanno stretti per non sentire il freddo, da qualche parte, fuori, ci sono le bombe dei russi, che gli ucraini hanno preso a chiamare disumani, non umani, orchi. Siccome è impossibile pensare ad altro, ogni aspetto della vita in Ucraina è legato alla guerra, al rapporto stravolto con il vicino russo e lo spettacolo nel sottosuolo di Ghishenko anche è sulla guerra e sulle sconfitte che il secondo esercito più potente del mondo, quello di Mosca, sta riportando in Ucraina. Non sono orchi, dice il comico, piuttosto assomigliano a Oompa loompa strafatti di sali da bagno. Fiumi di risate, nonostante la guerra, la paura, il freddo nel sottosuolo di ogni ucraino. Si apre così il documentario di Evgeny Afineevsky, regista che si definisce americano-israeliano, nato in Unione sovietica. Afineevsky non parla volentieri delle sue origini, dice che l’Urss lui l’ha vista collassare soltanto  da lontano: “In Unione sovietica ci sono nato, ho studiato e me ne sono andato”, dice al Foglio mentre si trova a Venezia per presentare “Freedom on fire”, il suo ultimo documentario girato in meno di sei mesi sulla guerra che la Russia ha scatenato contro Kyiv. Per Afineevsky andare immediatamente in Ucraina per documentare il conflitto è stato istintivo, aveva un conto in sospeso: otto anni fa aveva girato “Winter on fire”, film sulle proteste di Euromaidan che erano scoppiate in Ucraina alla fine del 2013 e andarono avanti per oltre novanta giorni. Afineevsky  era stato tra i manifestanti, li aveva visti urlare, protestare, morire e alla fine vincere, perché gli episodi ucraini che culminarono nel 2014 con la cacciata di Viktor Yanukovich, il presidente filorusso, e con nuove elezioni, furono una rivoluzione di successo. “Il grande messaggio di Euromaidan è stato che la piazza unita rappresentava una nazione nella sua interezza. C’erano giovani e vecchi, poveri e ricchi, ortodossi, musulmani. C’era tutta l’Ucraina in cerca del suo futuro. Ha vinto perché ha mostrato unità, una determinazione affascinante, sapevano che cambiamenti stavano cercando”. A Piazza Indipendenza, i manifestanti urlavano “L’Ucraina è Europa” e quel grido che a occidente è stato sottovalutato, in Russia è arrivato portato dal vento e dalla storia. “Vladimir Putin nel 2014 aveva capito che aveva perso il controllo dell’Ucraina e nel mio nuovo film ho voluto dimostrare che questi otto anni che separano le proteste dall’invasione non sono scomparsi, è tutto in continuità”. 

   

In “Freedom on fire” i protagonisti sono gli ucraini, i soldati, i profughi, i bambini, tutti intenti a portare il loro contributo alla nazione. Questi cittadini si sono tutti svegliati di soprassalto la notte del 24 febbraio, hanno avuto tutti il loro momento di incredulità, si sono sentiti smarriti, in cerca di salvezza, ma mai soli. “Quella telecamera sono io e vorrei che fosse ogni spettatore, ho filmato quello che vedevo, anche sotto le bombe. Quando corro, corre lo spettatore, quando mi fermo si ferma lo spettatore. Chi mi parla, parla allo spettatore. La nazione soffre, ma non è in ginocchio: volevo mostrare la vita nonostante tutto”. Ci sono molti bambini nel film, raccontano che sognano di svegliarsi con la notizia che Putin è morto e la guerra è finita, si domandano a cosa serve un conflitto. Sanno tutti molto bene cosa sia una guerra, lo hanno imparato dalle privazioni, dal vivere nascosti, dal non andare a scuola. Ognuno di questi bambini ha la sua definizione della parola “guerra”, ma sono tutti concordi nel dire che la trovano una cosa inutile: “Basta mettersi d’accordo”. Ci sono i bambini fuggiti a ovest, i bambini di Kyiv, i bambini che continuano a vivere nei loro palazzi sventrati, i bambini rinchiusi dentro lo stabilimenti dell’acciaieria Azovstal che chiedono di uscire per andare a giocare all’aperto, per vedere il sole. 

   

La storia di Azovstal, della città industriale con i cunicoli, le sue gallerie, i suoi bunker nella città di Mariupol, dove i combattenti del battaglione Azov si sono asserragliati, è un’altra storia di sottosuolo. I combattenti sono nascosti nelle viscere, da un’altra parte dello stabilimento ci sono le famiglie, ci sono ovunque le scritte deti, bambini, nel caso in cui i russi dovessero entrare. Ad Afineevsky, chi era dentro all’acciaieria racconta cosa si vive durante un assedio: quando smettevano di bombardare dal cielo, iniziavano dal mare, quando smettevano dal mare, iniziavano dalla terra. “Ogni film girato durante una guerra è difficile – racconta il regista – questo non è il primo per me. Ne avevo già girato uno in Siria, sempre sotto le bombe russe. Ma credo che i registi abbiano un dovere importante: documentare la verità per il futuro per evitare che gli errori vengano commessi di nuovo”. In tanti, tra le persone intervistate da Afineevsky nei due lavori ucraini, parlano di futuro. Sembra quasi una dimensione inarrivabile, che è lì, in attesa, dietro l’angolo.  Nel 2014, chi era in Piazza Indipendenza difficilmente si aspettava che il futuro sarebbe stato un’invasione, che i russi, i vicini di sempre, sarebbero stati i nemici di domani. Invece il futuro di allora è il presente di oggi e sotto le bombe, gli ucraini intervistati da Afineevsky dicono, sicuri, che il futuro arriverà, che è lì, basta girare.  

   

Il regista vede la guerra di oggi come l’evoluzione della piazza di ieri, dice che l’umore ucraino, le canzoni, gli scherzi, l’arte, l’umanità sono i segreti per vincere e sono caratteristiche che erano a Kyiv otto anni fa e sono parte anche di questa guerra. E’ impossibile non vedere russi e ucraini come due mondi che non fanno altro che allontanarsi, gli ucraini oggi si sforzano a usare più la lingua ucraina di quella russa, lodano la cultura di Mosca dicendo che sia un peccato che la Russia si sia ridotta in queste condizioni e mentre loro, gli ucraini, pensano al futuro, i loro vicini, parenti, amici di un tempo, sono rimasti incastrati nel passato, sono inciampati in quello che sono stati e non sono più in grado di rialzarsi. Dal 24 febbraio è una la domanda più frequente che si fanno a Kyiv come a Bruxelles come a Washington come a Mosca: “Perché?”. Mentre gli ucraini parlano di futuro anche sotto le bombe, Vladimir Putin ha ammantato di passato anche la sua dichiarazione di guerra, “Putin – dice Afineevsky – è convinto di avere un potere illimitato. Crede di poter commettere crimini quando vuole perché è rimasto impunito. Ha sviluppato l’idea di poter prendere l’Ucraina, senza reazioni”. E’ un rimando continuo tra il 2014 e il 24 febbraio, un gioco di specchi che porta alla guerra e uno dei motivi per i quali Afineevsky è convinto che le due storie vadano raccontate in continuità è perché se l’occidente avesse reagito alla decisione di Putin di organizzare un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale per annettere la Crimea alla Russia e se poi avesse prestato attenzione alla guerra iniziata nel Donbas tra i separatisti filorussi sostenuti da Mosca e l’esercito regolare di Kyiv, il futuro dell’Ucraina, il presente di oggi, sarebbe un altro. “La guerra nell’est dell’Ucraina è iniziata ed è scomparsa, ora non si può commettere lo stesso errore due volte”. “Freedom on fire” è la storia di un dolore che non porta alla sconfitta, Afineevsky dice convinto che l’Ucraina prevarrà, “ogni secolo ha il suo dittatore, da Napoleone a Hitler, ognuno sogna di creare il suo grande impero. Ognuno di loro ha fallito”. 

   

Gli ucraini sono i protagonisti del documentario, il loro modo di affrontare la guerra, le fughe, la resistenza, la morte. C’è chi ha dovuto fare scelte, decidere se portare con sé un figlio o un genitore e continua a ripetere “andrà tutto bene”, lo dice a voce alta, quasi urlando per convincersi, per consegnare il messaggio al vento, che lo porti fino a Mosca. Lontani, ma presenti, ci sono i russi, i fantasmi di questa storia, che guardano fingendo di non guardare. Afineevsky li riprende mentre osservano la parata che celebra ogni anno la vittoria dell’Unione sovietica sulla Germania nazista. I nazisti, ha detto Putin mentre dichiarava guerra, oggi sono in Ucraina, ha strappato un capitolo del passato russo e lo ha messo davanti agli occhi del mondo e dei suoi cittadini. Il mondo ha guardato con terrore e stupore  quel richiamo al nazismo, l’Ucraina non ha avuto difficoltà a spiegare di non avere nulla a che fare con i nazisti. I russi invece sono rimasti lì, a guardare un universo di propaganda che gli sbarrava il cielo, che li isolava dal mondo, che li trascinava nel sottosuolo, molto diverso da quello in cui si rifugiano gli ucraini per fuggire dalle bombe di Mosca. “Una delle fonti di dolore più profonde per i russi – spiega Afineevsky – rimane la Seconda guerra mondiale”. Quel rapporto con i nazisti di cui l’Unione sovietica si fidò fino al punto di non credere alle proprie spie: Stalin fu allertato dell’intenzione di Hitler di invadere l’Urss, ma preferì credere al suo alleato nazista e non prevenne l’invasione che costò la vita a circa 27 milioni di persone. Il nazista è il traditore. Secondo Afineevsky, Putin “invoca il nazismo per giustificare l’invasione, pesare su un senso di dolore che è ancora presente in ogni famiglia. E’ come irritare il toro con un mantello rosso”.

  

Il rapporto tra ucraini e russi rimane uno dei nodi di questa guerra e anche del futuro, nelle scene girate dal regista, c’è chi si rivolge a Mosca chiedendo di fermare “tutta questa insanità”. La Russia si è trasformata in un regno di azioni brutali e insensate, di una propaganda alla quale è impossibile credere, ma che in assenza di altro indottrina e strapazza le menti dei russi. Gli ucraini sono costretti a correre nel sottosuolo per scappare dagli attacchi dei russi, la Russia si è trasformata in un sottosuolo senza fondo, talmente oscuro da poterci rimanere intrappolati. “Queste persone sono così spaventate dalla possibilità di essere libere”, dice un intervistato nel documentario, riferendosi ai russi. Lo scontro tra popoli si profila come una contrapposizione tra il popolo dei liberi, gli ucraini, e il popolo dei servi, i russi. “La società ucraina – dice il regista – sta cambiando costantemente. C’è stato un Maidan, un post Maidan, la guerra. C’è stata un’evoluzione continua che gli ucraini hanno vissuto e sperimentato fase dopo fase, ognuna ha avuto le sue turbolenze. Ma adesso, con questo conflitto, credo che gli ucraini abbiano capito davvero cosa vogliono e per cosa lottare. Sono pronti per il futuro”. 

  

Si fa fatica a vederlo il futuro tra le rovine della guerra, i corpi per le strade di Bucha, gli arti mozzati, tra le lacrime e la consapevolezza che la distruzione non è finita, che il male sperimentato è soltanto una parte. Che il sottosuolo in cui si fugge per scappare possa diventare così simile al sottosuolo dei russi, che è mentale e non fisico, che una volta scese le scale si fatica a risalire. Ci sono però leggi storiche che sembrano regolare la vita dell’Ucraina, secondo il regista “assistiamo a una Terza guerra mondiale, ascolto la propaganda russa e capisco che le ambizioni non sono confinate all’Ucraina, sono più grandi e tutto questo finirà soltanto quando tutti capiremo che per fermare un conflitto globale bisogna intervenire. Raccontare l’Ucraina oggi è un richiamo all’unità”. 

  

Chi parla dalle strade di Kyiv dice che il compito ora è “fare del nostro meglio per non essere morti”, l’Ucraina bombardata che filma Afineevsky è una nazione di vivi, che lotta da otto anni per la libertà, dal 2014 per la democrazia, per il suo posto nella storia, per la libertà che Putin vorrebbe bruciare. “Dicono che sono venuti a liberarci. Ma liberarci da cosa?”, chiede una donna tra le macerie. La risposta la suggerisce lei stessa, ma la sanno tutti dal 24 febbraio, la sanno da otto anni, dal 2014, quando pensavano che fosse la fine e invece era soltanto l’inizio di ogni cosa: “Liberarci dalla libertà”.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)