elezioni a stoccolma

Il make up di Akesson all'estrema destra svedese ci ricorda qualcuno

Micol Flammini

L'11 settembre si vota in Svezia e la sopresa, annunciata, è il secondo posto dei democratici svedesi, il partito estremista ora ritenuto presentabile dai conservatori, che meditano alleanze

In qualsiasi nazione al mondo esiste un posto, una città che rompe un tabù politico, che sdogana, normalizza un partito fino a quel momento considerato impresentabile. In Svezia è la cittadina balneare di Sölvesborg, luogo di nascita di Jimmie Akesson, leader dei Democratici svedesi (Ds). A Sölvesborg il partito di Akesson ha vinto nel 2018 e da allora, il leader di questo gruppo controverso ha cercato di farne una vetrina delle sue politiche, affidando la gestione alla sua ex compagna, Louise Erixon, sindaco di Sölvesborg. Per Akesson era importante che gli svedesi vedessero ciò che accadeva nella cittadina meridionale e, mentre le statistiche della polizia indicavano un aumento dei crimini nel paese e  la paura degli scontri di bande di narcotrafficanti era sempre più forte,  chiedessero: ma perché non possiamo fare come a Sölvesborg, dove c’è il divieto di mendicare e ci sono guardie per la sicurezza in giro per la città? Il dibattito interno, l’immigrazione, la lotta al crimine sono i temi che dominano la campagna elettorale in Svezia che si chiuderà con le elezioni di domenica 11 settembre. Secondo i sondaggi la sorpresa, prevista,  sarà proprio il partito di Akesson, i Democratici svedesi sono pronti a diventare il secondo partito più grande del paese, dopo i Socialdemocratici della premier Magdalena Andersson

 

Akesson ha quarantacinque anni, è entrato in politica molto giovane militando tra i Moderati,  che ha abbandonato per i Democratici svedesi, di cui poi è diventato leader nel 2005, conducendoli verso risultati sempre più promettenti. Akesson ha raccontato di essere entrato nel partito soltanto dopo che erano stati cacciati tutti i membri più pericolosi e ambigui, ma per lungo tempo i Ds sono stati giudicati troppo estremisti e quindi tenuti lontani dalla politica nazionale: le loro radici sono nel movimento neonazista europeo. Akesson ha incominciato un lavoro di normalizzazione volto ad assicurare che i Democratici svedesi non avessero nulla a che fare con il nazismo. 

 

L’universo svedese si è poi capovolto durante la pandemia, quando le estreme destre del mondo e dell’Europa gridavano di cestinare mascherine e infrangere lockdown, scendevano in piazza aizzando gli istinti più pericolosi, sfilavano con i loro cartelli contro “la dittatura sanitaria” pieni di no. In Svezia, la parte dei premurosi, dei sì mask e sì lockdown l’hanno fatta proprio i Democratici svedesi, che facevano campagna contro la sventatezza del modello svedese, amato molto da tutte le altre destre estreme. La normalizzazione di Akesson ha iniziato a portare i suoi risultati:  farsi ascoltare dai partiti di centrodestra che vedendo crescere il suo consenso nel paese e apprezzando il cambiamento che il leader aveva imposto al partito non si sono chiesti quando ci fosse di costruito, se il neonazismo fosse rimasto sotto la patina della normalizzazione e hanno iniziato ad aprire alla possibilità di un’alleanza in Parlamento. Tanto più che Akesson ha deciso di sciogliere anche il nodo del posizionamento internazionale  e quando il 24 febbraio Vladimir Putin ha attaccato l’Ucraina è stato tra i primi a scrivere: “Le azioni di Putin devono essere condannate all’unisono e avere conseguenze di vasta portata”. La prima volta che i Democratici svedesi sono entrati nel Parlamento europeo, hanno scelto di sedersi con il gruppo Europa della libertà e della Democrazia diretta, con l’AfD e il Movimento 5 stelle. Quando il gruppo si dissolse, approdarono tra i Conservatori e riformisti, nei seggi vicini ai polacchi del PiS e a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Difficile avere posizioni filorusse se si sceglie di sedere al fianco dei conservatori di Varsavia, e quando la premier Andersson decise il passo storico di  entrare nella Nato, Akesson ha colto l’occasione per dimostrare, con il voto in Parlamento favorevole all’adesione, che il suo partito si era liberato anche dei suoi fantasmi anti atlantisti. Se ci sono parti in cui la storia sembra familiare, è perché lo è. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)