spazio post sovietico
Il confine tormentato tra Tagikistan e Kirghizistan, dove Mosca non si fa più sentire
La nuova fase di scontri ha preso il via durante il summit di Samarcanda. A differenza dei vicini regionali Uzbekistan e Kazakistan, i due paesi in conflitto non hanno mostrato la volontà di affrancarsi dal peso della Russia, ma il passaggio di consegne tra Putin e Xi Jinping rischia di creare un temporaneo e pericoloso “vuoto di potere”
Uno dei confini più caldi dello spazio post sovietico, quello tra Kirghizistan e Tagikistan, ha registrato nelle ultime ore un’escalation di violenza che rischia di far precipitare la situazione. Il tutto mentre i membri della Sco, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai di cui i due paesi fanno parte, erano ancora a Samarcanda per discutere l’avanzamento della cooperazione in termini di sicurezza e di rapporti commerciali.
La situazione sembrava tornata a una relativa tranquillità negli ultimi mesi, dopo gli scontri che nell’aprile 2021 avevano portato a un passo da un conflitto aperto lasciando sul terreno decine e decine di vittime e provocato migliaia di sfollati. Ma da un paio di giorni a questa parte le tensioni si sono acuite nuovamente, con almeno tre vittime confermate – ma il numero potrebbe essere molto più alto –, una cinquantina di feriti e migliaia di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case. Ieri poi il Tagikistan ha deciso di alzare il tiro impegnando nel confronto militare anche carri armati, mezzi corazzati di varia natura e mortai, utilizzati per bombardare in profondità nel territorio kirghiso. Spingendosi addirittura fino a colpire Batken, capoluogo dell’omonima regione e distante dal confine, e provocando la risposta da parte delle forze di Bishkek, capitale del Kirghizistan. In seguito è stato raggiunto un fragile cessate il fuoco, quasi subito violato da parte tagica.
Allargando lo sguardo alle cause che portano periodicamente a queste escalation, le tensioni tra le due più piccole repubbliche post sovietiche dell’area sono storicamente legate a questioni di confine. Si tratta di una linea di separazione lunga quasi mille chilometri ma che per ancora circa la metà risulta non demarcata ufficialmente: una delle tante eredità dell’Urss nella regione. Se alla questione della linea di confine si associa la contesa su numerosi bacini idrici, si capisce come la situazione sia costantemente in bilico. Basti pensare che nel 2019 un abitante dell’exclave tagica di Vorukh è stato ucciso perché, insieme a un gruppo di residenti dell’area, aveva issato una bandiera del Tagikistan sul territorio del Kirghizistan.
La nuova fase di scontri ha preso il via durante il summit di Samarcanda, che ha riunito i paesi membri della Sco e numerosi altri in veste di osservatori. Rahmon e Japarov, leader rispettivamente di Tagikistan e Kirghizistan, hanno avuto un colloquio nell’ambito dei lavori del meeting, giungendo alla decisione di ordinare alle rispettive forze armate di interrompere le ostilità. Entrambi i paesi sono parte della sfera di influenza russa (fanno parte anche della Csto) e, a differenza dei vicini regionali Uzbekistan e Kazakistan, non hanno mostrato la volontà di affrancarsi dal peso di Mosca – né probabilmente avrebbero la forza per farlo – nemmeno a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.
La concomitanza con un meeting in cui idealmente Vladimir Putin avrebbe voluto anche riaffermare il proprio ruolo nello spazio eurasiatico fa però emergere chiaramente come il Cremlino stia perdendo influenza nella regione. La Russia dispone di due basi militari in Tagikistan e Kirghizistan, ma questo non ha impedito a Emomali Rahmon di soffiare sul fuoco del nazionalismo – anche per rinsaldare il proprio potere interno e consolidare il ruolo del figlio come suo erede al potere – in un momento delicato per Putin. Lo stesso dicasi, allargando lo sguardo ad altri teatri, rispetto a quanto è accaduto negli ultimi giorni nel Caucaso, con un nuovo infiammarsi della situazione sul fronte del confronto tra Azerbaigian e Armenia.
Il passaggio di consegne che sta avvenendo in Asia centrale tra Russia e Cina, con quest’ultima sempre più influente non solo come partner economico ma anche come partner politico, rischia di creare un temporaneo e pericoloso “vuoto di potere”. Se su alcuni fronti nella regione si parla sempre più di cooperazione grazie soprattutto all’attivismo in tal senso del leader uzbeco, su altri, come dimostrano anche i recenti casi delle proteste in Kazakistan e in Uzbekistan, il limite tra stabilità e instabilità è molto sottile.