L'urlo delle iraniane
A Teheran ricompare Khamenei ma tace sulle proteste
Le manifestanti sono scese in piazza in 40 città contro la guerra per bande del regime mentre il presidente Raisi, all’Onu, parlava di giustizia. Nel frattempo, l’ayatollah non ha dedicato una parola ai disordini: ha ricordato che la nazione si difende con la resistenza e non con la capitolazione
Difficile immaginare un debutto più infausto di quello toccato ieri all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Ebrahim Raisi. Nelle strade iraniane dilagava la protesta per l’uccisione della ventiduenne Mahsa Amini, “mal velata” massacrata dalle percosse della polizia morale, per tutta la giornata di schermo in schermo sono rimbalzate le immagini di due ragazze, una seduta su una carrozzina che grida: “Siamo insieme, non abbiate paura”, e un’altra, vestita di bianco, con i capelli lunghi e bruni liberi sulle spalle che danza allargando le braccia, piroettando fino a gettare il suo velo nel fuoco.
Giovani donne, circondate da centinaia di altre donne e di altri uomini che sfidavano la polizia davanti alle università, nei vicoli e nelle piazze urlando “Morte al dittatore”. Ragazzi e ragazze che affiggevano cartelli e si armavano di bombolette spray per scrivere il nome di Mahsa Amini sui muri delle metropolitane. E Raisi intanto guadagnava il podio e tuonava: “Siamo a favore della globalizzazione della giustizia”. Nelle stesse ore sui telefoni degli iraniani si moltiplicavano gli avvertimenti delle autorità. “Lasciate quest’area. E’ inevitabile che la polizia agisca contro i fautori dell’insicurezza”, mentre Anonymous attaccava la Banca centrale iraniana, e nonostante internet funzionasse a singhiozzo, sui social network si rincorrevano le foto dei manifestanti, padri e madri a difendersi dai manganelli e molte mani nude tese contro i finestrini delle camionette della polizia.
“Sono separatisti curdi”, puntava il dito la tv di stato (Mahsa Amini era di origine curda). “Non sono cittadini comuni, ma agenti organizzati, manovrati dall’esterno per seminare il caos”, annunciava il governatore di Teheran. Impassibile, a New York, Raisi discettava fumoso di spiritualità e di lotta all’oppressione, invocava l’eguaglianza e il multilateralismo, brandiva la foto del famigerato capo di al Quds, Qassem Suleimani come se si trattasse di un santo. Fustigava la doppia morale occidentale in tema di diritti umani, e nello stesso fiato, senza temere il ridicolo, con la foto di Suleimani ancora sul leggio, proseguiva denunciando “gli stati che anelano la giustizia entro i loro confini e allo stesso tempo addestrano gruppi terroristici contro altre nazioni”.
A Teheran, ieri per la seconda volta in pochi giorni, a fugare i rumour che lo volevano in fin di vita è comparso l’ayatollah Ali Khamenei, la Guida suprema. Ai disordini non ha dedicato nemmeno una parola. In piedi, con la voce nasale, ha ricordato che la nazione iraniana si difende con la resistenza e non con la capitolazione e ad alcuni è parso quasi un altolà a Raisi. Prima della partenza, mentre il tumulto montava, il presidente ha chiamato la famiglia della ragazza uccisa, assicurando che soffriva insieme a loro, che era proprio come se anche lui avesse perso una figlia, nessuno sa cosa gli abbiano risposto, ma quando il mullah incaricato dalle autorità si è presentato per pregare sulla tomba di Mahsa il padre della ragazza lo ha cacciato. “Non vi vergognate? L’avete uccisa per una ciocca di capelli! Se ne vada!”. “Andatevene”.
E’ lo stesso sentimento che sale dalle piazze in rivolta di più di 40 città. Perché in Iran la politica è ormai solo una guerra tra bande. Non esistono più né riformisti né conservatori né pragmatici, niente più rivoluzionari dogmatici, solo cordate rancorose che vogliono spartirsi le risorse del paese. E dopo poco più di un anno e mezzo di mandato, Raisi l’eletto, il candidato perfetto di Khamenei deve già guardarsi le spalle dal fuoco amico dei conservatori. Ma tutto questo per le ragazze di Teheran non conta, Raisi non significa niente. “Credete che le nostre lacrime ci rendano più deboli? Non avete ancora visto niente”, gridava nel suo telefonino una ragazza mentre il presidente terminava il suo intervento al Palazzo di vetro.