Debolezza russa
La boria bellicista di Putin si può battere
Mosca dice tre verità: è una guerra, è una guerra difficile, è una guerra contro l’occidente. La quarta verità è il miracolo ucraino che oggi va sostenuto con i denti, non con le chiacchiere sceme di chi è immerso nella bambagia morale
In apparenza il ministro della Difesa russo, quel fantasmagorico e minaccioso pupazzone chiamato Shoigu, è stato costretto da Putin a dire tre verità dopo molte, moltissime bugie. È una guerra, prima verità. È una guerra difficile, seconda verità. Non è una guerra contro l’Ucraina ma contro l’occidente, terza verità. Le prime due si spiegano da sole con l’invasione, le stragi, la ferocia e l’impotenza, cioè la sconfitta di Kiyv, la ritirata da Kharkiv e la periclitante situazione in cui si trova un’armata senza altra motivazione che la menzogna nel Donbas. Ma la terza è più complicata.
Putin insiste in un bullismo planetario neoimperiale e, fallito il tentativo di cancellare l’Ucraina dei Piccoli Russi dalla carta geografica politica e culturale d’Europa, cerca di trasformare in una grottesca riedizione della Grande Guerra Patriottica l’Operazione Speciale andata a male. Però all’origine di tutto non c’è, per quanto si possa ragionare seriamente dei fatti, la caparbietà di un occidente aggressivo che vuole completare con la disintegrazione della Federazione russa la catastrofe geopolitica imposta all’Unione sovietica nel fatidico 1989.
Mitologie propagandistiche. L’occidente sta ancora discutendo se mandare i carri armati, non ha occupato con una no fly zone un solo centimetro del cielo ucraino, non ha esportato né la Nato né l’Unione europea a Kiyv, anzi ha continuato per anni a commerciare in energia e a rassicurare l’orso russo quanto poteva senza fornire sistemi d’arma e di deterrenza efficaci a un paese in pericolo, e si è limitato a armare progressivamente sempre di più e meglio, dopo e solo dopo l’invasione, un esercito nazionale che sulla carta avrebbe dovuto cedere le armi e il territorio in una settimana a un vicino corpulento e devastante che aveva preso l’iniziativa e si era spinto fino a Bucha e a Hostomel lasciando dietro di sé una caterva di cadaveri insepolti.
Putin è impaurito e tanto più minaccioso perché ha capito che sta combattendo contro un miracolo, questa è la quarta verità, e l’unica, che tenta di nascondere e nascondersi. Chiunque al posto degli ucraini avrebbe ceduto, si sarebbe sparpagliato nel disordine e nella disperazione. Trent’anni di indipendenza rissosa e insicura sono un soffio se paragonati ai secoli della sistematica espropriazione di ogni libertà sotto i regimi zarista e sovietico, con in mezzo una guerra mondiale e l’invasione nazista, tra sottomissione al totalitarismo e carestie forzate dal Politburo.
Invece del soffio spento che si dilegua, si è acceso un vento incendiario, quello di una vera guerra patriottica e di una insurrezione nazionale sostenuta dall’alleanza delle democrazie occidentali. Il cui capo, Biden, a tutta prima aveva offerto a Zelensky la scorta fino a Washington per finire lì come un Reza Pahlavi in esilio dorato. Il miracolo è stato in risposta una frase miracolosa, pronunciata in una capitale oscurata e spersa tra le bombe, da un piccolo attore ebreo che ha coraggio, una frase che verrà iscritta a lettere d’oro nella nostra storia: “Non ho bisogno di un passaggio, ho bisogno di armi”.
Di qui si deve ripartire per ragionare a freddo, ma nell’incandescenza della ragione politica, su quanto sta avvenendo. Sul nucleare Putin bluffa, com’è evidente.
E come è sottolineato dalla sua necessità di dichiarare il punto che non ha in un discorso ceauseschiano rivolto alla nazione e al mondo, perché anche la dottrina militare russa, come ogni dottrina del nostro tempo, prevede com’è noto la mutua distruzione assicurata per tutti. La Cina, l’India e perfino la Turchia si sono fatte sentire con una voce che parla dell’isolamento del Cremlino e del rigetto di ogni rischio. Su questo non c’è solo l’occidente a fare da baluardo.
Sul resto il suo è un gioco anche troppo scoperto. Prendersi una regione che non è sua con la forza, stabilire un fatto compiuto con l’arbitrarietà della violazione dei confini e dell’indipendenza nazionale, predisporre una lunga fase di negoziato a partire da un cessate il fuoco dopo aver smantellato mezzo secolo di politiche energetiche e un equilibrio che ora, con la determinazione occidentale anche all’inverno freddo e inflazionistico, volge a sfavore della logica dell’invasione. Quanto alla replica necessaria, i miracoli non sempre si ripetono. Il Cretino Collettivo ci ha voluto proporre la favola dell’invio delle armi a difesa come equivalente dell’uso aggressivo delle armi in una invasione.
Ma il miracolo è che quelle armi qualcuno, gli ucraini, le usa mettendo in discussione la propria vita e continuità di popolo, e ha imparato bene come si fa, perché chi sa fare fa e chi non sa fare chiacchiera. Ora è il momento di non lasciarsi sedurre dal lumicino di un possibile negoziato a basso prezzo, è il momento di ottenere il massimo, che non è la caduta di Putin, di cui saranno eventualmente i russi e gli apparati a occuparsi, ma la sconfitta politica e militare di una inaudita boria bellicista.
È il momento per l’occidente, invece di discutere come oggi avviene se Benjamin Giorgio Galli è un foreign fighter o un contractor o un partigiano, se sia legale o no arruolarsi per la libertà, chiacchiere sceme in un paesaggio avvizzito dalla bambagia morale, di fare tutto quello che è umanamente possibile per sostenere con le unghie e con i denti e con i carri armati il miracolo venuto da chissà dove della risposta ucraina all’autocrate di Mosca.