Un Foglio internazionale
La forza e la debolezza di Xi Jinping
Il culto della personalità del leader è una minaccia per il futuro della Cina. Le previsioni di un dissidente, ora in esilio, che conosce bene il Pcc
"Non molto tempo fa, il presidente cinese Xi Jinping stava andando alla grande. Aveva consolidato il suo potere all’interno del Partito comunista cinese (Pcc). Si era elevato allo stesso status ufficiale del leader iconico del Pcc, Mao Tse Tung: aveva abolito i mandati presidenziali, cosa che gli consentiva di guidare la Cina per il resto della sua vita. In patria, si vantava di avere fatto grandi passi in avanti nella riduzione della povertà; all’estero, sosteneva di avere aumentato il prestigio internazionale del suo paese. Per molti cinesi, i tratti autoritari di Xi sono un prezzo da pagare per un risveglio nazionale”. Così inizia il saggio di Cai Xia sulla crisi del leader cinese. L’autore è tra i maggiori conoscitori del Pcc: per quindici anni è stato uno dei professori della scuola di formazione del partito, dove crescono i leader di domani. Poi, nel 2020, Xia ha criticato Xi Jinping ed è stato estromesso dal partito, privato della pensione e messo in allerta per la sua sicurezza. “Oggi vivo in esilio negli Stati Uniti, ma mantengo un filo diretto con molti contatti in Cina”. In questo lungo articolo per la rivista mensile Foreign Policy, Xia rivolge delle accuse pesanti alla leadership di Xi Jinping.
Questo è ciò che scrive l’ex dirigente del Pcc del leader cinese: “Dietro le quinte, il suo potere viene contestato come mai prima. Allontanandosi dalla lunga tradizione cinese del governo collegiale, e creando un culto della personalità simile a quello di Mao, Xi ha irritato molti funzionari di partito. Allo stesso tempo, una serie di errori politici e una risposta inetta alla pandemia Covid-19 hanno distrutto la sua immagine di eroe della gente comune. Nell’ombra, cresce il risentimento tra l’élite del Pcc”. Xia prevede che questa opposizione interna renderà la leadership di Xi Jinping più estrema e divisiva, e questo può portarlo a compiere delle scelte avventate come l’aggressione contro Taiwan. “Xi potrebbe compromettere la reputazione che la Cina ha acquisito negli ultimi quattro decenni: quella di una leadership stabile e competente. Anzi, lo ha già fatto”.
L’ex professore racconta il sistema di potere cinese visto dall’interno. L’organo più importante – il comitato permanente del Politburo – è composto da cinque a nove persone e viene presieduto dal segretario generale del partito, che dal 2012 è Xi. Un’altra caratteristica del partito rimasta costante negli anni è l’importanza dei rapporti personali – ad esempio, la reputazione di famiglia – che hanno la stessa importanza della competenza o dell’ideologia. L’ascesa di Xi ne è l’esempio perfetto. A più riprese, il leader cinese è stato avvantaggiato dalle amicizie del padre, Xi Zhongxun, un dirigente del Pcc e ministro della propaganda con Mao.
Quando la carriera di Xi sembrava arenarsi, sono intervenuti i genitori che hanno sempre fatto in modo che lui cadesse in piedi. Nel sistema cinese è molto facile restare intrappolati per tutta la vita nelle sezioni locali; ma Xi non ha mai avuto questo problema, perché la nomenclatura del Pcc lo ha aiutato a scalare le gerarchie. Il mentore di Xi si chiama Geng Biao, un importante diplomatico e funzionario che aveva già lavorato con suo padre. Il leader cinese ha iniziato a lavorare per lui da ragazzo, nel 1979, ma questo rapporto lo ha agevolato nei decenni a venire. Così funziona il Pcc: ognuno ha un padrino politico, e le proprie fortune dipendono in gran parte da quelle del protettore. Le fazioni e i legami personali contano più dei grandi dibattiti ideologici. Senza il nepotismo, sostiene l’autore, Xi Jinping non sarebbe mai diventato l’uomo più potente della Cina.
Xia paragona il Pcc a una cosca mafiosa più che a un partito politico. “Il capo del partito è il boss, sotto di lui ci sono i suoi subalterni, ovvero il Comitato permanente. Questi uomini solitamente si spartiscono il potere tra loro, e ognuno è responsabile di un’area tematica: politica estera, economia, anticorruzione e così via. Loro dovrebbero essere anche i consiglieri del grande boss, offrendogli suggerimenti sui loro temi di competenza. Poi ci sono diciotto membri del Politburo, i prossimi in linea di successione al Comitato permanente. Loro sono i luogotenenti; eseguono gli ordini del boss per eliminare le minacce percepite e restare nelle sue grazie. Come ricompensa si arricchiscono a livelli esorbitanti, impossessandosi di immobili e aziende e restando impuniti. E, proprio come la mafia, il partito usa strumenti illeciti per ottenere ciò che vuole: corruzione, estorsione, persino la violenza”.
Xia riassume gli ultimi cinquant’anni di storia del Pcc, descrivendo una lenta transizione verso una leadership collegiale. Ovviamente la Cina non è mai stata una democrazia, ma dopo la fine del governo ultra autoritario di Mao si è abituata a convivere con l’idea che il potere debba essere esercitato in modo corale dal Politburo. In questi anni il culto della personalità è stato visto come il pericolo più grande dalla classe politica cinese, ed è stato vietato dalla costituzione. Paradossalmente, l’ascesa di Xi Jinping è stato il prodotto di questo sistema “quasi democratico” – così lo definisce l’autore – che lui ha successivamente cercato di smantellare. Molti in occidente si erano illusi che Xi fosse una sorta di versione cinese di Mikhail Gorbaciov – un riformista – ma si è rivelato esattamente il contrario: ha fatto di tutto per strangolare il pluralismo, silenziare il dissenso, eliminare i critici interni e imporre una leadership personalistica sul modello di Mao. Xia utilizza tanti esempi che dimostrano quanto sia diventato paranoico Xi Jinping, dando vita a un culto della personalità, vivendo al di fuori della realtà e governando come “un imperatore dei giorni nostri”. Questo rende il sistema cinese molto fragile, dato che i difetti del leader, descritto come “testardo, dittatoriale” e intellettualmente poco dotato, vengono amplificati a dismisura.
Questi limiti caratteriali si riflettono nelle scelte politiche: anziché continuare il processo di apertura al mercato iniziato dai suoi predecessori, Xi ha portato molte aziende di successo sotto il controllo dello stato, temendone l’indipendenza. In politica estera ha archiviato il pragmatismo dei leader precedenti, volendo sfidare in modo aggressivo la comunità internazionale – attraverso una diplomazia muscolare, la cosiddetta “wolf warrior diplomacy” – e avvicinandosi sempre di più alla Russia di Putin. La reazione iniziale all’emergenza Covid-19 – oltre alla disastrosa “Zero Covid strategy”, che ha imposto danni economici e psicologici enormi alla popolazione di Shanghai, trascinando tutto il paese in recessione – è stata frutto delle decisioni di Xi, che ha ignorato i consigli di collaboratori ed esperti medici. Questo non ha solamente alimentato il dissenso tra i dirigenti di partito – i critici interni più autorevoli sono stati fatti fuori da Xi – ma anche tra l’opinione pubblica, che dopo decenni di riforme non vuole tornare indietro ai giorni di Mao. Un simile scetticismo popolare verso la leadership del Pcc non si vede dalle proteste di Piazza Tiananmen nel 1989. Ma il popolo non scenderà in piazza per via della censura e del sistema capillare di sorveglianza messo in atto da Xi.
Per l’autore esistono due modi per liberarsi del leader. Il primo sarebbe negargli il terzo mandato nel congresso del prossimo autunno ma questo scenario resta improbabile perché Xi si è liberato dei critici, ha intimidito i rivali attraverso delle azioni dimostrative e ha riempito l’organo di suoi fedelissimi. E tuttavia il leader non potrà andare avanti per sempre. Le sue ambizioni cresceranno a dismisura: la repressione del dissenso diventerà sempre più dura, e le riforme stataliste sempre più drastiche. La Cina rischia di diventare come la Corea del Nord. In politica estera Xi si isolerà sempre di più dalla comunità internazionale, e continuerà il riarmo nel mare cinese del sud e in vista di un’invasione di Taiwan. Questo è il secondo modo per liberarsi di Xi: una sconfitta umiliante in guerra. Se la Cina attaccasse Taiwan, ci sono delle forti possibilità che la guerra non vada secondo i piani e che l’isola contestata, grazie all’aiuto americano, resista all’invasione e infligga grossi danni a Pechino. “In quel caso, popolo ed élite abbandonerebbero Xi, causando la sua caduta e forse il crollo del Pcc così come lo conosciamo”. L’autore traccia un parallelo con l’imperatore del Settecento Qianlong, che fu sconfitto nella prima guerra sino-giapponese, portando al tracollo della dinastia dei Qing.
“Gli imperatori non durano per sempre”, sono le ultime parole del dissidente cinese.
(Traduzione di Gregorio Sorgi)