I ragazzi d'Iran protestano con le ragazze e le proteggono. E' un paese nuovo
A Teheran gli uomini ora sono solidali con le donne. I fratelli, gli amici, i padri e i mariti scendono in piazza contro la polizia morale, credendo che tacere sia un crimine intollerabile
Milano. A Teheran, quando cala la sera, gli altoparlanti iniziano a gracchiare musica religiosa per annegare le voci dei manifestanti, ma nessuno ci fa caso, perché è a questo punto che i clacson prendono a strombazzare più a lungo e più forte, e che le macchine si bloccano per offrire copertura alle ragazze. Sono loro le protagoniste di queste struggenti giornate iraniane, giovani donne, a volte poco più che bambine che si fanno largo nella notte, con il capo nudo e il velo tra le dita, a ragione campeggiano sulle prime pagine, ma fianco fianco a queste ragazze camminano coetanei che scandiscono all’unisono il nome di Mahsa Amini, ragazzi che le incoraggiano e le innalzano sulle spalle, ragazzi dentro le automobili e per le strade, ragazzi che si rannicchiano sul pavimento delle università pur di non far passare i bassiji. Senza questi ragazzi che lanciano pietre e fumogeni contro le moto e le camionette della polizia, le ragazze sarebbero molto più sole e queste notti più scure, più lunghe, infinitamente più feroci.
Apatici, edonisti, smidollati privi di sogni. Li descrivono così i media di regime i ragazzi della cosiddetta generazione Z, giovani che non apprezzano quello che hanno, che non sanno dare valore a parole come abnegazione e rispetto, perché non hanno mai conosciuto né la guerra né la rivoluzione, giovani senza cicatrici, capaci solo di bighellonare e compulsare furiosamente sui loro telefonini. Eppure sono proprio questi ragazzi “senza spina dorsale” a gridare inseguendo le macchine della polizia morale. “Ho partecipato alle manifestazioni nella mia università. Oggi 100 bassiji sono entrati e hanno arrestato alcuni dei miei compagni. Il mio amico è stato arrestato, davanti al giudice ha detto che continuerà a protestare, che non ha paura di morire – ha raccontato Sobhan al Guardian – E’ così che viviamo. Non sappiamo se rivedremo i nostri amici, anch’io temo di perdere i miei”. Da quando sono stati oscurati i social media i ragazzi si riuniscono senza sapere cosa accadrà. “Ma non importa, siamo uomini e donne per strada, siamo insieme – ha raccontato Keyvan al Foglio – alcuni di noi accompagnano le madri, altri le sorelle”. La sensazione, spiega Keyvan, è che sia comunque più facile uscire che rimanere a casa. “Non abbiamo più nulla da perdere. E’ il nostro momento e siamo uniti”.
Nelle piazze si sentono slogan come “Da Tabriz a Sanandaj, da Teheran a Mashad”, si respira un senso di condivisione che durante le manifestazioni del 2017-2018 e del 2019-2020 non si percepiva. “Ognuno di noi ha una madre, una sorella, o una fidanzata che è stata umiliata dalla polizia morale. Non è ammissibile. La verità è che non abbiamo più fiducia né speranza nel regime. Siamo stanchi, siamo davvero stanchi di tutto persino di avere paura. Per me – dice Keyvan – chi non scende per strada è un vigliacco”. “E’ uno sviluppo epocale il fatto che così tanti uomini in Iran siano solidali con le donne. L’ennesima dimostrazione che la cultura patriarcale è in via di ridefinizione insieme a concetti come onore e pudore”, riflette il sociologo Mehrdad Darvishpour. “Lo possiamo osservare nelle famiglie. I giovani padri non temono più la tenerezza. I giovani mariti non temono più di svilire la mascolinità condividendo le responsabilità domestiche con le loro mogli”. I nuovi iraniani, secondo Darvishpour, soffrono con e per le loro donne. Il caso di Romina Ashrafi, uccisa dal padre a 14 anni perché si era innamorata del “ragazzo sbagliato”, è illuminante. Per settimane dopo la sua morte, i social network sono stati inondati da messaggi di giovani uomini che si sono uniti alla mobilitazione di migliaia di attiviste e hanno contestato l’idea di onore, il namus. “Questi ragazzi sono cresciuti in una società in cui la donna è vista come una perla da celare all’interno di una conchiglia – sottolinea Darvishpour – ma loro non si riconoscono più in un modello in cui l’onore di un uomo passa attraverso il controllo dell’aspetto e della sessualità di una donna”. #NoBelieveInHonour, #IOwnNoHonour, #ManWithoutNamus hanno scritto questi giovani che proprio come i ragazzi che hanno invaso le strade in questi giorni, credono che tacere sia un crimine intollerabile.