In Afghanistan
America e talebani si sono scambiati dei prigionieri. E ora?
I talebani vogliono uscire dall’isolamento, ma Nader Nadery, ex negoziatore di Doha, dice che questo è il momento di fare pressioni, non di dialogare. L’Amministrazione Biden annuncia che 3,5 miliardi della Banca centrale afghana sono pronti per la redistribuzione
Un contractor statunitense e un trafficante di eroina afghano sono stati i protagonisti di uno scambio di prigionieri all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul. Sembrava la scena di un film, ma è avvenuto davvero la scorsa settimana. Si tratta del contractor americano Mark Frerichs, catturato nel gennaio 2020 in Afghanistan dal gruppo Haqqani, e consegnato a rappresentati del governo americano in cambio di Bashir Noorzai, un signore della guerra e trafficante di droga vicino ai talebani. Arrestato a New York nel 2005 e condannato all’ergastolo, da 17 anni Noorzai scontava la sua pena in un carcere negli Stati Uniti. Ad annunciare al mondo lo scambio, lunedì scorso, è stato il ministro degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi, che ha definito lo scambio “l’inizio di una nuova èra nelle relazioni bilaterali tra i talebani e gli Stati Uniti”. Più cauta la reazione dell’Amministrazione Biden che, in un comunicato, ha parlato del “successo di un’operazione che ha implicato decisioni difficili”. Nel contesto di totale chiusura che ha caratterizzato le relazioni tra l’America e talebani nell’ultimo anno, il successo della trattativa prova l’esistenza di un dialogo sotterraneo. Ma lo stesso giorno dello scambio di prigionieri, su Foreign Affairs, è apparso un articolo a firma Lisa Curtis e Nader Nadery, tra i negoziatori nel processo di pace di Doha. Nell’articolo si sottolinea l’inutilità del dialogo e si chiede invece di aumentare la pressione sull’Emirato. Due fatti che ci dicono qualcosa di più dell’attuale situazione afghana.
Primo. Lo scambio dimostra l’esistenza di un dialogo silenzioso e continuo tra le parti. Gli Stati Uniti hanno ancora molti interessi in Afghanistan e non vogliono che il paese, centrale nello scacchiere centro-asiatico, finisca sotto la sfera di influenza della Cina. Inoltre, come dichiarato di recente da esponenti del governo americano, Washington continuerà a far pressioni affinché l’Emirato si impegni a risolvere la crisi economica che travolge il paese, a rispettare i diritti umani, a contrastare il terrorismo internazionale. I rapporti tra America e talebani sembravano aver raggiunto il punto più basso dopo l’uccisione di al Zawahiri, avvenuta a Kabul il 31 luglio, per mezzo di un drone americano. La sua morte aveva scatenato reciproche accuse. Per Washington la presenza a Kabul del leader di al Qaida dimostra che il regime afghano non ha mai smesso di dar rifugio ai terroristi; per i talebani quella americana era stata una palese violazione della sovranità del paese. Lo scambio tra prigionieri dimostra invece che il dialogo, per quanto appeso a un filo, non si è mai fermato.
Secondo. Occorre chiedersi se la negoziazione chiusa con successo possa essere il punto di partenza per l’avvio di un dialogo che abbia al centro anche altri temi, come il rispetto dei diritti umani, la riapertura delle scuole femminili, la formazione di un governo inclusivo di altre forze. Questioni che, per l’Amministrazione americana, sono propedeutiche al riconoscimento ufficiale del governo da parte della comunità internazionale. I talebani hanno bisogno di far uscire il paese dall’isolamento in cui si trova da più di un anno, soprattutto per arginarne le drammatiche conseguenze economiche. Secondo le Nazioni Unite, oggi l’Afghanistan è travolto da una crisi umanitaria senza precedenti, con il 90 per cento della popolazione che vive in povertà e almeno la metà in condizioni di malnutrizione. Le cause di questo disastro risiedono anche nelle sanzioni imposte un anno fa dalla comunità internazionale, nel taglio degli aiuti finanziari che per vent’anni hanno alimentato l’economia afghana, nel congelamento dei 9 miliardi della Banca centrale afghana collocati in assets stranieri. Una serie di prese di posizione durissime, adottate per mettere pressione sui talebani ma che, di fatto, hanno strozzato l’economia del paese. Decisioni usate dal regime di Kabul come alibi per coprire la propria incapacità di governare il paese. Adesso si tratta di capire se il dialogo avviato sullo scambio sarà utile a sbloccare il muro contro muro anche su diritti umani e crisi economica. Un segnale è arrivato già il mese scorso, quando Biden ha annunciato che 3,5 miliardi della Banca centrale afghana saranno ridistribuiti alla popolazione.
Terzo. Non tutti sono d’accordo sul fatto che l’America debba dialogare con i talebani, ma al contrario dovrebbe aumentare la pressione. Lo stesso giorno dello scambio Frerichs-Noorzai, Nader Nadery, uno dei più autorevoli politologi afghani, esperto di Diritto internazionale, già consigliere per i diritti umani e tra i negoziatori durante i colloqui di pace di Doha, ha scritto su su Foreign Affairs un articolo dal titolo “E’ il momento di essere duri con i talebani. La pressione, non l’engagement, è il modo migliore per aiutare gli afghani”. Nadery sembra escludere la possibilità che il dialogo con il regime di Kabul possa avere successo. Secondo Nadery, nell’ultimo anno i talebani hanno mostrato il loro vero volto, che è uguale a quello di venti anni fa. Un regime repressivo nei confronti delle minoranze, delle donne, degli attivisti. Sarebbero quindi interlocutori inaffidabili, come dimostrerebbero tutte le promesse disattese in materia di diritti umani e contrasto al terrorismo. Nadery conclude che prima di aprire un dialogo serve la prova di un cambio di atteggiamento e che l’unico modo per ottenerlo è aumentare le pressioni sul regime. Occorre però capire in che modo questa intransigenza possa davvero sbloccare la situazione, anche considerando che il muro contro muro fino ad ora non ha portato a grandi risultati. Soprattutto, in che modo tutto ciò non interferisca con l’assistenza umanitaria di cui gli afghani hanno bisogno. Oggi a pagare le conseguenze dell’isolamento in cui è finito l’Afghanistan è soprattutto la popolazione. Molti operatori umanitari presenti nel paese concordano nell’affermare che solo il ritorno al dialogo potrebbe alleviare la situazione.
L'editoriale del direttore