Un nuovo Iran. Tre donne, tre omicidi del regime. Ma questa volta c'è qualcosa di diverso
L’arbitrarietà della morte di Mahsa Amini e la costruzione di una nuova coscienza civile. Le proteste più importanti sono adesso. C'è una generazione che non ha paura, e che ha capito: non si può morire per una ciocca di capelli
La famigerata prigione di Evin è abbarbicata alle pendici brunite dei monti Alborz in fondo a una strada che risale l’altipiano zigzagando. Alcuni anni fa l’ex sindaco, Mohammed Bagher Ghalibaf, lanciò la proposta di raderla al suolo e di destinare i 43 ettari su cui insiste il complesso alla creazione di un parco, un polmone verde a servizio dei nuovi palazzoni tirati su con malagrazia dalle onnipotenti corporation dei pasdaran. Non se ne fece nulla, a dispetto delle pressioni degli speculatori, ingolositi dalla prospettiva dei caffè e degli spazi espositivi immaginati da Ghalibaf, Evin è rimasta al suo posto, dietro al filo spinato e alle mura che corrono su per la collina e ci girano attorno. Guidando dal centro verso il nord della città, la sagoma in cemento armato della prigione è visibile dall’alto della superstrada Yadegar Emam e le autorità hanno posizionato un’infilata di lastre di lamiera per celare l’ingresso agli sguardi degli automobilisti. Perché ogni giorno davanti a quest’anonima cancellata grigiastra, in fondo ad una stradina fiancheggiata da automobili e cassonetti dell’immondizia si riunisce una folla che implora notizie. Sono mogli, mariti, amici e colleghi. Quando le guardie li spingono indietro, alcuni alzano la voce, altri si rannicchiano sopraffatti contro il muro di cinta. In queste ore nella fila si contano soprattutto genitori, hanno i volti stravolti dalla paura e dalla mancanza di sonno e nelle loro parole c’è molto orgoglio e altrettanta disperazione. “Mio figlio è un ragazzo di 17 anni”, racconta Ziba (nome di fantasia) al Foglio, “ha la testa sulle spalle, è educato, prudente, frequenta l’ultimo anno di scuola, figurati, non ha ancora preso la patente. L’altra sera mi ha dato un bacio e subito dopo è uscito. Un attimo prima che la porta gli si chiudesse alle spalle, gli ho chiesto di restare. Ho urlato, ho persino pianto. Sai cosa mi ha risposto? Mamma, il mio sangue è prezioso tanto quanto quello delle mie sorelle. Sono trascorsi tre giorni, o forse quattro. Ogni notte attendo, ogni mattina spero. Il tempo ha smesso di avere un significato da quando se ne è andato”.
È impossibile stabilire quante persone siano state trascinate nella sola prigione di Evin nel corso dell’ultima settimana, secondo Iranwire potrebbero essere fino a tremila persone. Giovanissimi come il figlio di Ziba, ma anche quarantenni come Mahtab (nome di fantasia), scesa per strada per accompagnare la figlia quindicenne, o professioniste come Yalda Moayeri, la fotografa colpevole di aver immortalato lo strazio dei genitori di Mahsa Amini.
“Ci sono continui pestaggi, la sicurezza è inesistente”, ha denunciato Moayeri in un messaggio raggelante in cui ha descritto la fame, i bagni fetidi, l’assenza di ventilazione, e i prigionieri imbottiti di sedativi. Secondo il regime le Yalda Moayeri d’Iran non meritano niente di meglio. Spie, prostitute, polvere e spazzatura, dicono questo di loro alla televisione. “Mi hanno sbattuto per terra, un poliziotto mi ha premuto lo stivale sulla schiena. Mi ha inferto un calcio allo stomaco, mi ha legato le mani e trascinandomi per le braccia mi ha sbattuto nella camionetta”, ha raccontato Maryam (nome di fantasia), 51 anni, alla Bbc. “E’ peggio di quello che si vede nei video”, ha spiegato alla Bbc, “ho sentito un comandante che ordinava ai suoi uomini di non mostrare alcuna pietà e così è stato”. Perché purtroppo non c’è nulla di inedito nella violenza che da più di dieci giorni si sta abbattendo contro le struggenti piazze in rivolta, quel che c’è di nuovo in Iran è il coraggio. “Non era la sola sulla camionetta”, ha raccontato Maryam, “c’erano altre donne, alcune erano giovanissime. Le ho osservate e mi sono fatta forza, perché gridavano e si prendevano gioco dei poliziotti. Questa generazione è diversa dalla mia. E’ una generazione che non sa cosa sia la paura”.
Non si tratta di retorica, della vertigine che si prova quando il cuore batte in gola e ci si lascia trascinare dentro il flusso di un’emozione collettiva, ma bisogna riavvolgere il nastro e tornare davanti al cancello di Evin per prendere le misure di quanto tutta stia cambiando.
Zahra Kazemi era una fotogiornalista iraniana con cittadinanza canadese. Viveva a Montreal e aveva 54 anni quando fu arrestata, dopo essersi rifiutata di abbassare la macchina fotografica stretta su un’altra generazione di prigionieri politici. Era il 23 giugno del 2003. Di ritorno dall’Iraq, Kazemi aveva fatto tappa in Iran su incarico della rivista canadese Recto-Verso, era giugno, l’inizio di un’altra estate infiammata dalle proteste e dalla repressione. L’11 luglio, diciotto giorni dopo il suo arresto, Kazemi fu dichiarata morta. Nella prima versione fornita dalle autorità in merito al decesso della donna si fece riferimento a un infarto, alla seconda introdussero la variabile della “caduta accidentale”, solo nel terzo fumoso resoconto uscì fuori la parola colluttazione. Ma erano tutti depistaggi. Ogni richiesta di accertamento da parte del figlio della vittima in Canada venne respinto e Kazemi fu sepolta in fretta e furia nella città natale di Shiraz. Tuttavia mesi dopo, Shahram Azam, il medico che era di guardia quando la fotogiornalista arrivò all’ospedale militare di Baghiatollah, scappò da Teheran e vuotò il sacco descrivendo le torture che aveva constato sul corpo della paziente.
La storia di Zahra Kazemi destò scalpore tanto in Canada, quanto a Teheran. Il presidente all’epoca era Mohammed Khatami e quello era precisamente il tipo di pubblicità che i riformisti avrebbero offerto un rene per evitare. Perché erano gli anni del sogno del gradualismo democratico, gli anni in cui l’Iran veniva descritto come un paradiso per intellettuali in erba, un laboratorio in cui islamisti progressisti dibattevano questioni filosofiche con riformisti laici, gli anni delle feste techno-ashura in cui le attiviste raggiungevano i villaggi più remoti per parlare dei diritti delle donne. “Pressione dal basso per negoziare riforme in alto”, promettevano le avanguardie di regime e nonostante il sangue che seguitava a scorrere alle manifestazioni, in Iran c’era ancora chi desiderava crederci, chi dietro all’orrore per l’assassinio di Zahra Kazemi non osava dire ad alta voce se l’è andata a cercare, e però magari lo pensava. Perché lo spirito del tempo sussurrava che i sogni di una generazione potevano ancora essere salvati, che la svolta sarebbe arrivata e sarebbe accaduto senza intrusioni occidentali, spinta da cittadini e leader illuminati (“un misto tra Vaclav Havel e l’imam Musa al Sadr”, scrisse qualcuno di Khatami). Quasi nessuno allora si sarebbe immolato in nome del coraggio di una donna che vuole sentire il vento nei capelli o non accetta di abbassare l’obiettivo.
Quell’illusione si dimostrò un gigantesco abbaglio. Dopo Khatami arrivò Mahmoud Ahmadinejad e l’estate del 2009 fu un’altra estate piena passione e di furia. “Dov’è il mio voto?”, gridavano le piazze iraniane in rivolta. Erano anni inquieti, la promessa del gradualismo riformista era naufragata, ma esistevano ancora milioni di persone disposte ad andare a votare, a credere se non nella sostanza, almeno nella forma di una democrazia limitata che si esprimeva nelle urne. “Siete con noi o con loro?” scandivano i ragazzi nelle piazze. Loro erano “gli altri”, la generazione violenta e oppressiva di mullah ottuagenari, incapaci persino di rispettare il gioco di elezioni di cui avevano scelto i protagonisti. Noi erano i ragazzi ed i loro genitori. Sì, qualcuno strillava “Morte al dittatore” anche allora, ma la maggior parte dei dimostranti desiderava solo un Iran più normale. E a quei noi apparteneva anche Neda Agha Soltan, la ventiseienne che amava la musica e la poesia e che quel maledetto 20 giugno del 2009, quando fu freddata da un cecchino, era semplicemente uscita dall’automobile per respirare una boccata d’aria. I fotogrammi della morte di Neda, il suo bel viso rigato di sangue, la voce dell’amico che sussurra “ti prego non te andare” fecero il giro del mondo. Neda divenne un simbolo, la sua fine, il momento definivo, il prima e il dopo di un’intera generazione. Perché per mesi gruppi di ragazzi e di ragazze deposero tuberose sulla sua tomba, ma a poco a poco la scintilla si spense, non erano chiari gli obbiettivi, perché quella generazione aveva ancora memoria della guerra e non aveva l’ardire di ripensare un mondo in cui tutto deve cambiare.
Ma le piazze che pronunciano senza paura il nome di Mahsa Amini sono quelle di una generazione più innocente e più pura. Una generazione che ha sete di verità e di bellezza e che non è disposta ad accettare le menzogne di un regime che non è neppure in grado di chiedere scusa. Come Zahra Kazemi, Mahsa Amini non è morta d’infarto, ma a differenza di Zahra Kazemi, Mahsa Amini seguita a vivere nelle piazze che invocano il suo nome. Non si può morire a 22 anni per una ciocca di capelli. Sembra così semplice, eppure in Iran da più di quarant’anni non è affatto ovvio. Dovunque andrà la protesta il nuovo Iran è già nato. Se lo sta caricando sulle spalle una generazione diversa da tutte le altre. Ogni iraniana sa cosa significa essere intercettata dalla polizia morale e subire l’arbitrarietà di un trattamento che può andare dalla reprimenda, alla frustata, alla molestia, alla multa a discrezione del controllore in questione. Ogni iraniano ha assistito a scene di ordinaria follia in cui una sorella, una madre o una moglie è diventata rossa per la frustrazione e per la vergogna, ma prima d’ora nessuna massa critica ha mai contestato in modo tanto radicale la bieca inevitabilità di questi soprusi. “Abbiamo un’economia in macerie e una società infelice”, ha ammesso ieri l’ex parlamentare riformista Parvaneh Salashouri, “è giunta l’ora di ascoltare la voce della nostra gente”. Però ha chiosato: “Potrebbe essere troppo tardi”. La sensazione è proprio questa, che il tempo del regime sia scaduto, che la leadership ottuagenaria che tiene in scacco le piazze struggenti di Teheran non possa che arretrare (chissà quando e chissà come) davanti a una generazione che non è disposta ad alzare e riabbassare le spalle, perché questi sono ragazzi che non temono nulla, neppure il profilo tetro di Evin che si staglia contro le montagne, perché questi sono ragazzi che si vogliono riappropriare delle parole e del loro significato, ragazzi che non hanno più voglia di aspettare l’uomo o la donna della provvidenza perché la vita è adesso.