punto di svolta
Il voto bosniaco di domenica è il più importante dalla fine della guerra
In Bosnia si gioca la partita tra l’occidente e la Russia, che punta sullo sfascio del paese balcanico e sull’onda tellurica che esso può produrre
Quest’estate l’editore americano Interlink ha pubblicato “Bosnian War Posters”, uno stupendo libro curato da Daoud Sarhandi che raccoglie decine di manifesti, cartoline, copertine di riviste, flyer e dazibao artigianali prodotti durante il conflitto balcanico degli anni Novanta.
Sfogliandolo a distanza di più di venticinque anni dalla fine della guerra, è incredibile verificare come, accanto all’orrore e all’uso di slogan zuppi di odio e (quantomeno in quegli anni) grondanti di sangue, fossero sempre rimaste in ogni curva della guerra anche sacche di buonsenso e non si fosse mai persa la voglia, pur nella penuria di tutto e quindi anche di inchiostro e di carta, di applicare il graphic design a quel buonsenso – perché, sì, sulle pagine di “Bosnian War Posters” è facile verificare come i manifesti ragionanti fossero quasi sempre più belli, anche esteticamente, di quelli prodotti solo per dare combustibile agli scontri. Ma oggi, più di venticinque anni dopo la fine del conflitto, è altrettanto incredibile vedere come, in vista delle elezioni di domani in Bosnia ed Erzegovina, che sono giustamente considerate da molti analisti “le elezioni più importanti dalla fine della guerra”, le parole d’ordine dei partiti nazionalisti, seppur formulate in modo un po’ più civile, non siano molto diverse da quelle stampigliate sui manifesti che negli anni Novanta venivano appiccicati sui muri sforacchiati dai proiettili.
Nelle elezioni di domani si rinnova di tutto: i consigli provinciali; i parlamenti delle due “entità” che formano lo Stato federale bosniaco (la Republika Srpska e la Federazione croato-musulmana); i presidenti delle due entità; il Parlamento federale; e, soprattutto, i tre presidenti della Bosnia ed Erzegovina, che, uno per ciascuna delle etnie principali (serbi, croati e bosgnacchi musulmani), si spartiscono il ruolo di capo dello stato. Impossibile spiegare il funzionamento dell’intricatissimo sistema istituzionale forgiato dagli accordi di Dayton. Molto facile invece spiegarne il non-funzionamento: i meccanismi di pesi e contrappesi su base etnica immobilizzano ogni cosa. Ed è ancor più facile indicare chi sia favorevole a mantenere, e anzi ad aggravare, la paralisi: i leader dei partiti ultranazionalisti serbo-bosniaci e croato-bosniaci che puntano su una Bosnia ed Erzegovina sempre più bloccata, e quindi sempre più fragile, in attesa del momento più opportuno per riuscire, finalmente, nell’intento di smembrarla, fallito con le armi. Nei mesi scorsi, per esempio, l’Hdz Bih, il partito nazionalista dei croati di Bosnia, ha provato senza successo a etnicizzare ulteriormente il sistema di voto, attraverso una riformina della legge elettorale che aveva trovato la sponsorizzazione del governo di Zagabria e, incredibilmente, anche dell’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, Christian Schmidt.
Ma perché si dice che quelle di domani siano le elezioni bosniache più importanti dalla fine della guerra? Perché è da allora che i venti nazionalisti non tiravano così forte sul paese balcanico. E perché anche in Bosnia si gioca la partita tra la Russia, che punta sullo sfascio della Bosnia e sull’onda tellurica che esso può produrre, e l’occidente. Si guarda quindi con interesse ai risultati del partito nazionalista dei serbo-bosniaci guidati dal turboputiniano Milorad Dodik, che della sua confidenza con il leader russo ha fatto la sua miglior arma propagandistica, e a quelli dell’Hdz Bih del leader nazionalista croato-bosniaco Dragan Covic, putiniano giusto un po’ più dissimulato. E non perché dalla paralisi bosniaca possa davvero nascere un governo di un segno o di un altro capace di una qualche efficienza nel perseguire i propri disegni, ma per poter capire quanto ci si debba davvero preoccupare per il gonfiarsi delle nubi nazionaliste su Sarajevo, Mostar e Banja Luka.