la maestra di teheran
Le adolescenti stracciano le foto in classe degli ayatollah e scrivono: “Donna, vita, libertà”
Giovani che fino all’altro ieri sapevano tacere dei libri che leggevano e della musica che ascoltavano, ragazze che per andare avanti hanno sempre applicato l’autocensura ai propri pensieri, ai propri desideri, all’improvviso non ci riescono più
Ascoltare la guida suprema Ali Khamenei e il suo presidente Ebrahim Raisi che, davanti alla più dirompente crisi di legittimità che il regime abbia affrontato da 43 anni a questa parte, non sanno fare di meglio che nascondersi dietro un dito e agitare il logoro spauracchio del complotto internazionale fa venire in mente un proverbio persiano che recita: un uomo cieco che vede è migliore di un uomo che vede, ma è cieco.
Lunedì e martedì, nonostante l’eco raggelante dell’assedio e della violenza selvaggia contro i manifestanti dell’Università Sharif (“una zona di guerra, c’era sangue dappertutto”, ha raccontato un ragazzo alla Cnn), mentre si moltiplicavano gli agguati e filtravano notizie di altri arresti, le università sono state teatro di nuove proteste. A Rasht gli studenti di medicina hanno organizzato un sit in silenzioso, a Najaf Abad i ragazzi hanno battuto le mani scandendo le parole “Libertà, libertà, libertà”, a Mashad sono sfilati in corteo al grido di: “L’Università Sharif è diventata una prigione. La prigione di Evin è diventata un’università”.
Ma tra i momenti che raccontano il clima che si respira in Iran in questi giorni, nessun gesto, nessuna parola è in grado di restituire la portata della dissonanza cognitiva tra l’universo distopico della mullahcrazia e quello degli iraniani meglio dei filmati che mostrano il dilagare della ribellione nelle scuole femminili.
Ci sono le liceali che si tengono per mano rivolte verso la lavagna, e cantano “Baraye” la canzone-simbolo di Shervin Hajipour, a capo scoperto, i capelli lunghi che ondeggiano sulla schiena, ci sono le ragazzine delle medie dentro a un cortile che inneggiano il nome di Mahsa Amini, ci sono le sedicenni che sciamano fuori dalle scuole gridando “Morte al dittatore”, ragazzine che alzano il dito medio verso l’ayatollah Khamenei, che tolgono dal muro la sua foto e la sostituiscono con le parole d’ordine “Donna, vita, libertà”. Ci sono ragazzine che a Saqqez, la città natale di Mahsa Amini si levano l’hijab e lo agitano sopra la testa dicendo: “Non abbiate paura, siamo tutte insieme”, ci sono quattordicenni che strappano dai libri la foto del padre della rivoluzione Ruhollah Khomeini e subito dopo la calpestano, oppure la bruciano, e altre adolescenti indomite come quelle che a Karaj hanno circondato un funzionario del ministero dell’Istruzione e lo hanno cacciato urlandogli “Bisharaf”, senza onore, senza vergogna.
È questo ciò che sentono non le figlie, ma le nipoti della rivoluzione, ragazze a cui i genitori hanno insegnato che tra tutte le regole la più importante è la consegna del silenzio, giovani che fino all’altro ieri sapevano tacere dei libri che leggevano e della musica che ascoltavano, ragazze che per andare avanti hanno sempre applicato l’autocensura ai propri pensieri, ai propri desideri e che però all’improvviso non ci riescono più. Non vogliono, non possono e urlano il loro sdegno in modo viscerale perché Mahsa Amini somigliava a ciascuna di loro e il regime invece no.
Ladan insegna da trentacinque anni e non ha mai assistito a una mobilitazione di questo tipo. Al Foglio racconta che le sue allieve sono consapevoli del momento che stanno vivendo. Le autorità hanno contattato molti genitori e li hanno messi in guardia prima della ripresa delle lezioni, ma le ragazze non hanno accettato di rimanere zitte. “Per loro è un momento definitivo e sanno bene quello che rischiano, non si tratta di bravate, si tratta di guardarsi allo specchio e decidere a 14, a 15 o 16 anni che tipo di persona vuoi diventare. La mia generazione non ne ha avuto il coraggio, forse in noi era troppo forte il senso di autopreservazione, forse subivamo in maniera maggiore la sudditanza psicologica, in fondo nella nostra cultura la mancanza di rispetto è un crimine senza ritorno. Non lo so, forse le ragioni sono altre ancora, sta di fatto che queste giovani donne non si vogliono più nascondere, sono diverse, più forti, più sincere, più trasparenti, in poche parole migliori. Quando le guardo mi dico che nella vita le cose essenziali me le stanno insegnando loro in questo preciso momento, perché sono le mie allieve, non io, le adulte nella stanza”.