Capire le proteste
Un deal ora sarebbe uno schiaffo alle rivolte in Iran
Per molti un accordo sul nucleare riporterebbe la calma. La piazza dice: forse non avete capito
Per un popolo che si ribella a un regime, con l’urgenza di trasmettere al mondo esterno le ragioni profonde della propria rabbia, il pericolo maggiore è che il suo messaggio sia frainteso. E’ un rischio che negli ultimi giorni incombe sui giovani iraniani che urlano nelle piazze del paese “morte al regime” e “morte a Khamenei”. L’oggetto del contendere è ancora una volta il deal sul nucleare, che lascia dietro di sé una scia di ambiguità nelle relazioni fra l’occidente e Teheran.
Domenica scorsa è stato pubblicato un articolo sul New York Times firmato da Vivian Yee e Farnaz Fassihi, intitolato “In Iran sogni fuori portata e un’economia malata fomentano la rabbia”, e con questa tesi: la principale motivazione delle proteste è di natura economica. Oltre la metà della popolazione iraniana vive al di sotto della soglia di povertà, da quando nel 2018 l’ex presidente americano Donald Trump ha deciso di recedere unilateralmente dall’accordo sul nucleare, costringendo di nuovo l’Iran a sanzioni economiche soffocanti. Quindi, conclude l’articolo, “agli analisti e a molti iraniani sembra chiaro che un modo per migliorare l’economia sia quello di concludere un accordo sul nucleare con l’occidente”. Sui social molti oppositori hanno accusato il New York Times di travisare la natura delle rivolte e di non comprenderne la portata.
Se tanti giovani hanno avuto il coraggio di scendere in piazza, se tante donne si tolgono l’hijab e si tagliano i capelli sfidando il regime, è per un desiderio di libertà e dignità, dicono, non certo per le sanzioni economiche. “In queste ultime tre settimane non ho sentito mai nessuno inneggiare a un nuovo accordo sul nucleare”, ha scritto in una lettera di protesta al giornale Daniel Khalessi, un professore iraniano dell’Università di Stanford. Come lui, molti altri sono insorti e alcuni hanno annunciato di avere annullato i loro abbonamenti al quotidiano americano.
Se è vero che le proteste non sono iniziate per abolire le sanzioni, ma quando la polizia morale ha incarcerato e ucciso Mahsa Amini, una ragazza 22enne colpevole di indossare il velo in modo scorretto, è anche vero che l’hijab è solo una parte della storia. Un altro articolo pubblicato martedì dal Wall Street Journal ricorda che oltre alla repressione religiosa la società iraniana è schiacciata da un insopportabile disagio economico. La classe media è stata la più penalizzata dalle sanzioni, che hanno portato l’inflazione a crescere oltre il 50 per cento e a una grave svalutazione del rial. Ed è proprio la classe media che via via si sta unendo alle rivolte guidate dalle donne e dai giovani: potrebbe essere questo uno degli elementi di discontinuità rispetto alle proteste fallite del 2009. All’epoca Barack Obama fu accusato di rimanere in silenzio, mentre stavolta Joe Biden ha annunciato nuove sanzioni economiche contro il regime. L’Unione europea resta un passo indietro. L’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, ha detto che Bruxelles “sta valutando tutte le opzioni a disposizione, incluse altre misure restrittive” contro Teheran. Ma come ha ricordato il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jack Sullivan, le proteste delle donne e i negoziati per il deal devono restare due dossier separati. Nelle piazze iraniane però si teme che l’occidente possa commettere due errori: restare inerte o legittimare il regime andando avanti con un negoziato che nessuno vuole.