operazione “Coming Home”
La guerra di Putin sta mettendo fine a 1.500 anni di ebraismo in Russia
Israele si aspetta l’arrivo di altri 55mila correligionari. I tecnici di tel Aviv stanno approntando soluzioni abitative, nel mercato del lavoro, istruzione e sanità
“Questo è il mio primo Yom Kippur in esilio”. Così si apre l’articolo apparso ieri sul New York Times di Pinchas Goldschmidt, l’ex rabbino capo di Mosca fuggito in Israele. “Un giorno, una fonte del governo ha informato la sinagoga che ci si aspettava che appoggiassimo la guerra, altrimenti…”. Per Goldschmidt era il segnale. “Fu allora che io e mia moglie abbiamo deciso di lasciare il paese. Questo sarà il nostro primo Yom Kippur in esilio dal luogo che abbiamo chiamato casa per trent’anni”.
Nel 1933, il rabbino Shmarya Yehuda Leib Medalia, allora rabbino capo di Mosca, tenne un sermone dallo stesso pulpito. Medalia, sapendo che ogni parola che pronunciava veniva monitorata dall’Nkvd, quel giorno parlò in codice. Le autorità sovietiche avevano dichiarato il Kippur giorno lavorativo, per impedire alle centinaia di migliaia di ebrei di Mosca di recarsi in sinagoga nel giorno più santo dell’anno. Medalia raccontò la storia di due ebrei in un piccolo villaggio che andarono dal rabbino con un pollo. Entrambi lo rivendicavano. Medalia disse: “Mettete il pollo in mezzo alla strada e vedremo dove andrà”. Il rabbino venne arrestato e fucilato dalla polizia segreta sovietica.
In Israele oggi ci sono 17mila domande di immigrazione in fase di elaborazione, come parte dell’ondata di immigrazione dalla Russia più impressionante da quando è caduta l’Unione Sovietica. Nell’operazione “Coming Home” dallo scoppio della guerra in Ucraina a febbraio, sono immigrati già 40mila ebrei. Secondo le stime del ministero degli Esteri israeliano altri sessantamila sono pronti al ritorno. “Nell’ultima settimana, centinaia dalla Russia sono arrivati ogni giorno e si prevede che decine di migliaia di immigrati arriveranno in Israele nei prossimi mesi” commenta il giornale israeliano Maariv. “Gli ebrei russi che pensano di fuggire dal paese dovrebbero andarsene ora prima che inizi una nuova ondata di antisemitismo”, aveva detto ad agosto l’ex refusnik sovietico Natan Sharansky, che ha trascorso nove anni nelle carceri sovietiche dopo che gli è stato rifiutato il permesso di lasciare il paese. Molti ebrei russi sono già fuggiti in Armenia, Azerbaijan e Georgia, in attesa di vedere cosa fare. Il governo russo ha iniziato l’iter per la chiusura dell’Agenzia Ebraica, che aiuta gli ebrei a fare l’aliya, fermando così tutte le operazioni all’interno del paese. Ma Sharansky dice che “Israele sapeva come mantenere i contatti e supportare l’aliya dall’Unione Sovietica anche quando non c’erano un’agenzia ebraica e nessun diplomatico israeliano in Russia”.
Se i numeri teorici diventassero realtà sarebbe la fine della grande comunità ebraica russa. Dai cassetti a Gerusalemme si tirano fuori progetti di alcuni anni fa che prefiguravano un esodo in massa degli ebrei russi. I tecnici israeliani stanno approntando soluzioni abitative, nel mercato del lavoro, istruzione e sanità (ieri Gerusalemme ha stanziato venticinque milioni di dollari aggiuntivi), nella consapevolezza che molti stanno arrivando in Israele in fretta e senza preparazione come fanno normalmente. Il ministro delle Finanze, Avigdor Lieberman, lui stesso emigrato dalla Russia, ha anche proposto di estendere indietro alla quarta generazione il diritto di emigrare (oggi la legge prevede almeno un nonno ebreo). Soluzione emergenziale e temporanea, ma che ha fatto saltare sulla sedia gli ortodossi che vogliono preservare l’ebraicità di Israele. Ma la dice lunga sul fatto che la guerra di Putin, nata per “de-nazificare” l’Ucraina, sta de-ebraicizzando la Russia.