Il disvelamento
Il femminismo cauto e fotogenico che rinnega ogni presa di posizione: anche verso le iraniane
Buona parte del movimento femminista occidentale non accetta una gerarchia delle oppressioni, così il regime di Teheran è equiparato al patriarcato. La voce di Masih Alinejad contro ogni equivoco
“Cogliete l’attimo. Non esiste rivoluzione se metà della popolazione resta in schiavitù. Afferrate la libertà! Le donne del mondo vi guardano, con affetto e con ammirazione, vi guardano traboccanti di trepidazione in questo tempo audace e pericoloso. I loro occhi sono orgogliosi, quasi invidiosi. La storia ha bussato alla vostra porta! Vi salutiamo, vi amiamo, vi sosteniamo. Sta a voi adesso iniziare la rivoluzione”.
Suscitano un’infinita nostalgia le parole piene di speranza e di partecipazione di Kate Millett, nostalgia di un tempo in cui essere femministe poteva significare salire su un aereo e precipitarsi in una Teheran imbiancata di neve per schierarsi a fianco di un’altra generazione di donne iraniane. È il 5 di marzo del 1979 quando Millett arriva all’aeroporto di Mehrabad, l’ha invitata Kateh Vafari, una femminista iraniana che ha conosciuto a New York. Lo scopo della visita è un discorso che Millett deve tenere in occasione della festa della donna. Il 4 marzo l’ayatollah Ruhollah Khomeini parla favorevolmente “della partecipazione delle donne alla attività della nazione” e Millett è contenta di estendere i messaggi di sostegno di Simone de Beauvoir, Gloria Steinem e Angela Davis alle sorelle iraniane. Ma il 6 marzo l’avventura di Millett a Teheran inizia a complicarsi.
Il quotidiano Ettelat annuncia la chiusura di tutte le scuole miste e il 7, lo stesso giornale, dà conto del decreto in cui Khomeini sancisce l’obbligo del velo per tutte le donne che desiderano lavorare. Seguono giorni in cui si alternano caos e frustrazione, nella capitale iraniana fa freddo, gira la bronchite, si fumano troppe sigarette e intanto cambiano di continuo i piani e gli slogan e saltano moltissimi appuntamenti, perché la città è tutta un checkpoint e i komiteh (i comitati rivoluzionari antesignani della polizia morale) non hanno di meglio da fare che arrestare le persone.
Sono gli stessi giorni in cui il governo ad interim guidato da Mehdi Bazargan annuncia che le donne sono “troppo emotive” per ricoprire il ruolo di giudici, giorni in cui le donne iniziano a essere aggredite e intimidite da bulli che urlano “Ya rusari, ya tusari”, o ti copri la testa o prendi un colpo in testa. Così a cinque settimane dalla fine dell’esilio politico di Khomeini, le donne ne hanno abbastanza e si riversano nelle strade, trasformando la festa che avevano immaginato in una protesta per la libertà. La sconfitta è ancora una prospettiva irreale. “In questi giorni – annota nel suo taccuino Millett – puoi semplicemente essere parte di qualcosa, cantare, marciare con il tuo registratore in tasca e muoverti insieme a loro”. Sono migliaia le donne che si ribellano agli editti di Khomeini al grido di “Non abbiamo fatto la rivoluzione per tornare indietro”. Per Millett è tutto meraviglioso, la spontaneità e l’autenticità e la velocità della reazione davanti all’ingiustizia. Poi qualcosa cambia. La repressione diventa feroce e persino l’aria, racconta Millett, perde la sua innocenza rivoluzionaria.
Nel frattempo molti esponenti della sinistra iraniana denunciano la mancanza di lungimiranza delle donne e le loro dimostrazioni “borghesi”, difendendo l’imposizione del velo in nome dell’anti imperialismo. La presenza di Millett, intanto, si fa di ora in ora più scomoda e il 18 marzo viene diramato un ordine per la sua espulsione. “Cara Kate, la tua presenza in Iran ha certamente aiutato a calamitare l’attenzione internazionale nei confronti della battaglia delle donne iraniane (…) – le scriverà pochi giorni più tardi l’attivista Walter Lippmann – Ed è abbastanza ovvio perché gli ayatollah avessero fretta di cacciarti fuori dal paese. E d’altro canto non dobbiamo sorprenderci che dopo la tua partenza sia scomparso ogni cenno alla lotta delle iraniane”.
Certo anche allora, fioccarono i distinguo. Resta il fatto che, quell’inverno, una figura di rilievo come Millett, la Mao Zedong del movimento di liberazione femminile secondo la rivista Time, non ebbe remore a buttarsi nella mischia e c’è da chiedersi come giudicherebbe l’atteggiamento riluttante e tortuoso delle femministe dei nostri giorni.
“Be my voice”, scrivono in inglese, sui cartelli, le ragazze con gli occhi di velluto disposte a perdere tutto tranne che la dignità. Raccolgono like, retweet, dichiarazioni di maniera queste ragazze, ma dov’è la passione, dov’è il coraggio?
“Come fate a definirvi femministe?”, si domanda l’attrice iraniana Golshifteh Farahani e verrebbe davvero da invocare un gesto eclatante come quello che chiede Masih Alinejad, incontenibile attivista, giornalista e madrina di mille battaglie, quando strapazza Ségolène Royal, Catherine Ashton e Federica Mogherini. Se siete davvero delle femministe – dice Alinejad – andate in Iran a capo scoperto, ammettete che vi siete sbagliate a nascondervi sotto un velo davanti ai nostri oppressori e per una buona volta offrite la vostra solidarietà alle iraniane.
Non si tratta di una boutade. È chiaro che chi visita l’Iran si attiene alle leggi e al protocollo, ma il punto su cui mette l’accento Alinejad che, alla questione del velo, o meglio del disvelamento, ha dedicato anni di campagne, è un altro: dove è il punto di demarcazione per una femminista occidentale tra il rispetto e la compiacenza? È davvero impensabile per una donna libera, consapevole e forte del ruolo che ricopre, assumersi la responsabilità di un’azione dirompente? Quand’è che le femministe sono diventate creature caute e prudenti, per le quali le rivendicazioni di milioni di donne passano in secondo piano rispetto all’estenuante contenimento di regimi irriformabili?
Come si è cristallizzato questo senso astratto del patriarcato che nega la sofferenza, le esperienze, i sogni e la carne viva delle persone? È per via della paura? Paura di sbagliare, di esagerare, di apparire poco serie? Oppure si tratta solo d’indifferenza? (“Abbiamo cose più importanti da fare”, ha risposto Royal quando Alinejad l’ha incontrata e ha insistito a pungolarla sul velo).
Ma c’è anche un altro posizionamento forse ancora più problematico nel composito fronte femminista ed è quello delle donne che, quando si parla di diritti non riescono più a pensare in termini universali. Tutto è relativo, mutevole, negoziabile, una battaglia ombelicale dopo l’altra. Questo sono le femministe che si preoccupano del contesto, dell’intersezionalità, ossia della coesistenza di tutte le oppressioni possibili, senza gerarchia. E dunque guai a mettere in luce i peccati di regime misogini, se l’effetto collaterale può essere quello di lambire una causa, per esempio quella palestinese, o una religione, per esempio quella islamica.
Guai a dimenticare che dietro una violenza può esserci l’interiorizzazione del razzismo, la mancata elaborazione della piaga del colonialismo e via discorrendo, con il risultato che a ogni presa di posizione corrispondono un se e un ma. Come nel caso della deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez. “Solidarietà alle coraggiose donne iraniane e ai loro alleati che manifestano in nome della libertà. (…) – ha scritto, poi però ha aggiunto – Mahsa Amini è stata brutalmente assassinata dallo stesso sistema patriarcale e dalle stesse forze autocratiche che reprimono le donne in tutto il mondo. Il diritto di scegliere appartiene a tutti, dall’hijab ai diritti e alle cure riproduttive”.
L’equivalenza che suggerisce Ocasio-Cortez tra i problemi che devono affrontare le donne americane e la battaglia per la libertà che stanno combattendo le iraniane è ridicola, quasi che a Teheran la questione non fosse la violenza misogina del regime teocratico, ma il solito patriarcato.
“Ogni volta che in occidente parlo dell’imposizione dell’hijab e del dolore che causa, mi viene detto che se condivido le mie storie sarò responsabile di aver scatenato l’islamofobia”, insorge Alinejad. “Sono una donna che viene dal medio oriente e ho paura delle leggi islamiche. La fobia è irrazionale, ma la mia paura invece è decisamente razionale, quindi parliamone”.
La forza con cui Alinejad si è rivolta contro gli equivoci e le false equivalenze che confondono le acque del dibattito intorno all’islam politico e alla libertà, l’hanno resa una figura amata e odiata, a tratti controversa. Con la sua cascata di riccioli ribelli sulle spalle, il fiore dietro l’orecchio, la parlantina incontenibile e la tendenza a evitare i giri di parole, ad Alinejad viene rimproverato di essere troppo visibile, troppo appassionata, troppo egocentrica. Nella diaspora iraniana c’è chi le rinfaccia un colloquio con Mike Pompeo, ex segretario di stato americano: poco più di mezz’ora ha raccontato lei, per parlare di diritti violati. E c’è chi parla di lei come di un personaggio un po’ megalomane che vuole intestarsi la guida delle manifestazioni in Iran (il casus belli in questo caso è un’intervista di Dexter Filkins sul New Yorker).
Ma è innegabile che il coraggio di Alinejad, che ha quarantasei anni, che le prigioni del regime le ha sperimentate e che tuttora vive sotto scorta, ha rappresentato una boccata d’aria fresca per milioni di iraniane. “Sono un prodotto della rivoluzione. La mia è una famiglia di mostazafin, gli oppressi, quelli che hanno fatto la rivoluzione”, si racconta Alinejad cresciuta in un villaggio minuscolo con un padre che per sbarcare il lunario vendeva anatre e polli. Ma le origini non bastano a definirla. In Parlamento chiese a bruciapelo al presidente dell’assemblea: “Tutte le rivoluzioni divorano i loro figli. Tu quale sei? Quello che divora o quello che viene divorato?”. Alinejad è il tipo di giornalista che in un Iran che grida morte al grande Satana americano a un certo punto è quasi riuscita a intervistare Barack Obama. Ma Alinejad è soprattutto, visceralmente, una donna che non si volta dall’altra parte, una che sa sempre scegliere tra vittime e carnefici. Il tipo di femminista di cui c’è un disperato bisogno.