premio tripartito
Nobel per la Pace distratto: il verdetto di Oslo sembra venire da un'altra epoca
Nulla da eccepire sui meriti dei premiati: Ales Bialiatski è un dissidente, il Memorial ha lottato contro le violazioni dei diritti in Russia e il Centro per i diritti civili dell'Ucraina ha invocato un processo contro Putin. Ma mancano dei segnali più diretti
“Il comitato per i Nobel ha una curiosa idea della parola ‘pace’, se assegna un premio ai rappresentanti di due paesi che hanno attaccato insieme un terzo”: difficile inventare un riassunto più sintetico del Premio per la Pace edizione 2022 di quello fornito dal consigliere della presidenza ucraina Mykhailo Podolyak. Nell’autunno della guerra più terribile della storia dell’Europa dal 1945, che ha scosso e ribaltato le fondamenta di 80 anni di pace sul continente, trovare un candidato all’altezza non sembrava difficile, e tutti gli occhi erano puntati a est. Dopo che alla vigilia nelle scommesse guidava con grande distacco il candidato più ovvio, Volodymyr Zelensky, seguito da Alexei Navalny e dal popolo ucraino nel suo insieme, da Oslo è arrivato un verdetto che ancora prima che lasciare delusi sembra provenire da un’altra epoca, dove i riconoscimenti vengono pesati e centellinati da burocrazie “equidistanti”, e soprattutto molto distanti dalla vita, e dalla morte, di migliaia di persone, in una guerra di cui il comitato per i Nobel sembra non essersi accorto. Nulla da eccepire sui meriti e l’impegno dei tre premiati.
Lo scrittore Ales Bialiatski è un dissidente da manuale, indipendentista della prima ora e organizzatore delle prime proteste antisovietiche in quella che all’epoca era ancora considerata la repubblica più quieta dell’Unione sovietica. Fondatore della ong Viasna, del Fronte popolare bielorusso e della comunità dei cattolici, ha alle spalle 40 anni di manifestazioni, pubblicazioni clandestine e arresti: il 4 agosto, il giorno in cui il dittatore Aljaksandr Lukashenka l’ha imprigionato per 4 anni nel 2011, viene celebrato come la giornata internazionale di solidarietà con i dissidenti di Minsk. Bialiatski ha collezionato premi, cittadinanze, opere cinematografiche e teatrali dedicate a lui e riconoscimenti in tutta Europa. Uno dei pochi dissidenti bielorussi a non essere fuggito all’estero, dal 2021 è di nuovo in carcere, accusato di “evasione fiscale”.
Memorial, la prima ong russa fondata ancora nella perestroika da Andrei Sakharov, non solo ha creato un archivio unico dei crimini del regime staliniano, ma si è dedicata alla battaglia per i diritti umani nella Russia contemporanea, in particolare (ma non solo) in Cecenia, dove è stata uccisa la sua attivista Natalya Estemirova.
Il Centro per i diritti civici dell’Ucraina è una organizzazione meno celebre – se non altro per l’ovvio motivo che, operando in una democrazia, non ha la fama delle ong che sfidano i regimi dittatoriali – che ha denunciato in particolare le persecuzioni dei tatari nella Crimea occupata dai russi. La sua leader Oleksandra Matveychuk ha colto l’occasione del Nobel per chiedere subito l’espulsione della Russia dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e invocato un processo contro Putin e Lukashenka per crimini contro l’umanità.
Questo Nobel tripartito fra due dittature e una democrazia, e accomunato fondamentalmente da un principio “territoriale” postsovietico, in una strana allusione all’unità dei bielorussi, ucraini e russi tanto cara a Vladimir Putin, è la constatazione di un fallimento. Non è un caso che il premio non venga celebrato in Ucraina, nonostante sia la prima volta che i suoi rappresentanti vengano notati da Oslo. “La voce dei difensori dei diritti umani nella nostra regione non è stata ascoltata, perciò ora parlano gli eserciti”, ha scritto Matveychuk nel suo messaggio (dove la menzione del Nobel arriva in fondo, quasi per inevitabile cortesia).
Ales Bialiatski è stato candidato al Nobel più volte negli ultimi 20 anni, e forse un premio ottenuto prima l’avrebbe salvato dall’arresto. Viasna e Memorial sono entrambe state liquidate dai regimi che sfidavano, e un anno fa molti a Mosca speravano in un Nobel per la ong russa che forse l’avrebbe salvata dalla messa al bando, così come un premio per Alexei Navalny – che oggi è stato rispedito di nuovo per 15 giorni in cella di punizione – forse avrebbe reso più difficile per Putin torturarlo. Perfino il premiato dell’anno scorso, il direttore della Novaja Gazeta Dmitri Muratov, era stato costretto a dichiarare che avrebbe voluto il Nobel per Navalny. Una volta i Nobel per la Pace facevano arrabbiare i dittatori. Ora, fanno arrabbiare i premiati.
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