Xi Jinping non cambierà

Lui cerca il potere assoluto, a Taiwan si fa festa per la democrazia

Giulia Pompili

C’è stato un lungo periodo di tempo in cui l’occidente ha creduto nella trasformazione della Cina usando gli stessi strumenti che aveva usato, dopo la caduta dell’Unione sovietica, con la Russia. La globalizzazione, l’economia di mercato e lo sviluppo avrebbero innescato un processo irreversibile di apertura a un sistema se non propriamente democratico, meno autoritario. Questo tipo di trasformazione è avvenuto per il paese che non riconosciamo, Taiwan, e che per parecchio tempo abbiamo cercato di ignorare. La festa nazionale che Taipei celebra lunedì – la festa del Doppio dieci, che ricorda l’inizio della rivoluzione che portò alla fondazione della Repubblica di Cina – è anche la celebrazione di un paese che, nonostante l’isolamento diplomatico e le minacce di “riunificazione” di Pechino, è riuscito a uscire dai decenni di autoritarismo e a costruirsi un’identità convintamente progressista, democratica e aperta al mondo.  E invece a un certo punto, sia per la Russia sia per la Cina, è arrivato il momento degli uomini forti al comando. 


Tra una settimana Xi Jinping, segretario generale del Partito comunista cinese e presidente della Commissione militare centrale, molto probabilmente verrà confermato per un terzo, inedito mandato durante uno dei momenti più importanti della liturgia politica cinese, il Ventesimo Congresso del Partito, che si apre il prossimo 16 ottobre. 


In quel momento sarà chiaro se la leadership cinese rafforzerà il potere di Xi, che governa da dieci anni il paese più popoloso, la seconda economia del mondo, oppure no: nel primo caso, con i pieni poteri saldamente nelle mani di Xi Jinping e dei suoi fedelissimi,  il sessantanovenne segretario generale diventerà il leader autoritario e granitico pronto a realizzare il suo Sogno cinese, costi quel che costi. Un leader a senso unico, che non ha nessuna intenzione di cambiare. 


Il problema è che cercare indizi su quel che deciderà il Congresso è un’attività simile a quella che un tempo si chiamava cremlinologia – l’equivalente cinese del Cremlino è il Zhongnanhai (si pronuncia gion’-nan-hai), e si dovrebbe istituire una specie di zhongnanhaiologia, troppo complicata anche solo da pronunciare. Nessuno sa davvero cosa succede nei palazzi del potere cinesi anche perché nell’ultimo decennio Xi Jinping è stato molto attento a imparare una lezione dalla Russia: meno informazioni circolano sulla leadership, più efficace è la sua proiezione nella propaganda interna e nelle relazioni internazionali. Il sistematico smantellamento delle operazioni di spionaggio da parte di paesi stranieri, il boicottaggio e l’allontanamento dei media internazionali dal paese, l’epurazione di tutte le possibile schegge impazzite dentro al Partito (nelle ultime settimane ci sono stati diversi processi esemplari per corruzione contro responsabili dell’apparato di sicurezza dello stato) sono un piccolo esempio di una politica di controllo maniacale e ossessiva.  La seconda lezione che Xi Jinping ha imparato dalla Russia, ricordata ieri da Fareed Zakaria sul Washington Post, è che il capitalismo e l’apertura all’occidente potrebbero rendere il Partito comunista un arnese obsoleto, addirittura un ostacolo. Ecco il motivo del ritorno a una centralizzazione dell’intero sistema economico, alla burocratizzazione, perfino la politica Covid zero, la politica bandiera di Xi Jinping nella sua guerra al virus che sta massacrando non solo l’economia ma anche la tenuta sociale della Cina – anche oggi milioni di cinesi sono in lockdown, nelle grandi città e nelle regioni più sensibili per Pechino, dallo Xinjiang alla Mongolia Interna fino al Tibet, dove il controllo sanitario è legato al controllo politico della dissidenza. La Cina sta attraversando un periodo di profonda instabilità economica dovuta anche e soprattutto al suo autoritarismo. 


Dall’altra parte dello stretto di Taiwan, la festa del Doppio dieci è invece la nemesi del Congresso del Partito comunista cinese. Il governo di Taipei guidato dalla progressista-democratica Tsai Ing-wen ha studiato la guerra della Russia contro l’Ucraina, ha aggiornato i piani strategici di Difesa ma soprattutto ha fatto una riflessione sulle motivazioni di Putin: quelle di un leader ossessionato dal rimettere al loro posto i pezzi di un impero crollato in modo disordinato, dal vendicare l’umiliazione della fine dell’Unione sovietica. Sono molto simili a quelle di Xi, che vuole vendicare il  secolo delle umiliazioni cinese e parla continuamente di “riunificazione inevitabile”. E c’è un’altra cosa che abbiamo imparato da Putin: non saranno l’occidente né i suoi alleati a cambiare Xi Jinping, ma questa volta siamo preparati. 
 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.