Essere realisti, l'unico sedativo all'ansia nucleare
Il first strike atomico semplicemente non conviene al regime di Putin. E non sarebbe risolutivo: la condizione dell’occidente oggi non è paragonabile a quella del Giappone nel 1945
Siamo chi più chi meno tormentati dall’ansia nucleare. Nei primi anni Sessanta, quando ero adolescente, le retoriche sull’atomica e le angosce conseguenti pullulavano, si gonfiavano oscenamente, assumevano dimensioni grottesche a ogni nuovo esperimento nell’atmosfera, a ogni nuova minaccia, e si fecero vertiginose intorno alla crisi dei missili a Cuba (si prescriveva di evitare mozzarella e insalata, l’immaginazione catastrofica diveniva patologica). Non siamo a quel punto, perché siamo in parte immunizzati da decenni di assuefazione all’esistenza degli arsenali, dalla diffusione multipolare dell’arma assoluta, dall’idea di effetti territoriali limitati del cosiddetto nucleare tattico, da una moltiplicazione delle paure ordinarie che rende fatalisti di fronte a quelle che dovrebbero essere straordinarie. Però l’allarme sale di livello e comincia a investire noi, gente comune, per quanto lontani dal teatro degli scontri diretti ma sempre più connessi alla sua riproduzione via social, con le immagini a rullo continuativo al posto del vecchio uso ponderato e gerarchico della parola scritta e dell’analisi.
L’unica cura, l’unico miorilassante, l’unico sedativo che non rincoglionisce, è essere realisti. Walter Russell Mead, politologo e storico di peso della scuola conservatrice americana, dice che la deterrenza, concetto chiave quando si parla dell’equilibrio nucleare e della sua possibile violazione con un primo colpo, è un arnese difficile da maneggiare. Aggiunge che l’invasione dell’Ucraina nasce da un fallimento della deterrenza americana e occidentale, il che è incontestabile (l’insistenza sull’aiuto solo indiretto con la linea rossa del non intervento Nato, la smobilitazione dell’ambasciata americana a Kyiv, l’offerta di una scorta aerea a Zelensky per la fuga sono gli elementi visibili, madornali, di una previsione negativa sulla capacità di resistenza ucraina al Blitz tentato da Putin). Se alla capacità di resistenza non credevano le grandi nazioni d’occidente, perché avrebbe dovuto crederci chi ha deciso per l’invasione e l’ha realizzata? La sua conclusione è che di fronte alla retorica nucleare del Cremlino ora gli Stati Uniti devono drammatizzare il rischio, mobilitare opinione nazionale e internazionale, alleanza occidentale e Nato, minacciare apertamente conseguenze esiziali nel caso di un primo colpo russo. Solo a queste condizioni la diplomazia può parallelamente agire con qualche prospettiva di successo.
Marta Dassù, politologa ed esperta in geostrategia di ispirazione liberal, sostiene invece che alla deterrenza efficace basta quanto già riservatamente comunicato sulle conseguenze di un’iniziativa nucleare russa, l’immediata distruzione (con armi convenzionali) dell’esercito e della marina nel Mar Nero, perché il first strike atomico semplicemente non conviene al regime di Putin, non supplisce al guaio in cui si è cacciato nella condotta della guerra convenzionale, anzi, sarebbe un suicidio nucleare programmato che, se realizzato, non determinerebbe risultati militari importanti e condannerebbe la Russia a un grado intollerabile di isolamento conducendo il regime a una crisi senza sbocco.
Le due tesi hanno argomenti dalla loro, e sono da valutare con attenzione. Si può pensare che la bilancia penda di più in favore della tesi scettica di Dassù perché l’uso del nucleare ha un senso, se si possa parlare di “senso” in questo caso, solo a condizione che sia risolutivo, che la sua forza di intimidazione metta in ginocchio il nemico. Come avvenne con Hiroshima e Nagasaki, e non avverrebbe con una atomica tattica su terreno ucraino, per un motivo semplice da afferrare: la condizione dell’occidente non è paragonabile a quella del Giappone alla fine della guerra mondiale.
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