la storia che ritorna
Come in Cecenia e Siria, Putin può sventare il ridicolo soltanto con l'enormità dei colpi sferrati
A eccitare il furore dei capi russi di fronte al sacrilegio del ponte di Kerch colpito, la linea rossa, è stata la loro sicumera. Il Cremlino ha rivendicato il disonore e l'ottusità: è la nostra rappresaglia, dicono dopo aver bombardato Kyiv, e ne hanno annunciate altre. Si sono rivendicati terroristi, chiamando terroristi gli altri
Dal 24 febbraio la questione del ponte di Kerch era sul tappeto: era il bersaglio dichiarato, il bersaglio grosso degli ucraini desiderosi di riaprire il conto di Crimea. All’opposto, oltre che un’arteria strategica fra terraferma russa e Crimea, era il vanto superbo di Putin persuaso che il suo ponte fosse inattaccabile. I mesi trascorsi non avevano fatto che alzarne la posta, poiché ora recidere quell’arteria avrebbe significato per gli ucraini spezzare lo scambio fra l’esercito russo accampato oltre la riva del Dnepr a Kherson e il suo retroterra. A eccitare il furore dei capi russi di fronte al sacrilegio del ponte colpito, la linea rossa, è stata la loro sicumera. La stessa che li aveva indotti a far incrociare la loro ammiraglia – anche quella un trofeo, “la nave di Putin”, come “il ponte di Putin” – in vista della costa di Odessa, incapaci di immaginare una simile offesa alla loro potenza.
La stessa che aveva esposto pressoché incustoditi aerei e depositi di munizioni a Saki, in Crimea, alla mercé di un’incursione ucraina. Se non amassi il toro – i capi russi si vanno dimenando alla cieca come il toro riempito di banderillas. Non hanno solo perso terreno sul campo, dopo il primo vantaggio dell’invasione. Si sono coperti di ridicolo, e si sono coperti d’infamia. Un dittatore non sopravvive al ridicolo, e per sventarlo ha un solo antidoto, l’enormità dei colpi sferrati, quella che disonora chi la compie. Era andata così in Cecenia – Anna Politkovskaja aveva fatto questo, aveva ridicolizzato Putin e i suoi scherani, aveva certificato il disonore del suo esercito. E’ andata così in Siria, dove un’Anna Politkovskaja è mancata o non è stata tradotta o non ha avuto il tempo di sollevarsi prima d’essere abbattuta. Non è un miracolo simbolico la promozione sul campo del generale Surovikin, che schiacciava sotto il proprio tank i manifestanti contro il golpe di Mosca del 1991, il contrabbandiere d’armi, il tormentatore dei suoi commilitoni, il bellimbusto di Cecenia, Donbas e Siria?
Mi ero detto che l’esplosione del ponte di Kerch avrebbe segnato un passaggio drammatico nella guerra. Si può provare a mettersi nei panni di Putin. (Io a volte ci provo: ho l’impressione che non sia impossibile né difficile con uno così, e non corro rischi, so che Putin non saprebbe mai mettersi nei miei panni). Ha subìto umiliazioni tremende, permaloso com’è. Nel giorno dell’oltraggio di Kerch al Cremlino dovettero chiedersi come rispondere. Non c’era da temere che si attaccassero alla famosa atomica tattica: l’avevano troppo minacciata, e l’atomica è un’arma finché resta una minaccia, una volta usata davvero cambia la partita e fa passare di mano il banco. Dovevano escogitare un gesto enorme e impensato, che facesse sbalordire e terrorizzare il mondo. C’era bisogno di fantasia, qualcosa che somigliasse al ribollire dei gasdotti sottomarini, qualcosa che facesse della notte giorno e viceversa, che facesse restare il mondo a bocca aperta. Ci hanno pensato, devono aver consultato tutti i loro ingegni e le loro competenze, e poi hanno deciso. Di riempire di bombe il cielo e la terra delle città ucraine, delle loro luci, delle loro case, dei ponti pedonali e dei parchi giochi infantili. Non sanno fare altro perché non sanno pensare altro. L’hanno rivendicato anche, quel disonore e quella ottusità: è la nostra rappresaglia, e ne hanno annunciate altre. Si sono rivendicati terroristi, chiamando terroristi quelli che avevano colpito un ponte.
La Russia è durata, schiacciando i popoli sottomessi al costo di innumerevoli viltà, sul retaggio del valore dei suoi combattenti (ucraini compresi) nella “Grande Guerra Patriottica”, esaltato e abusato. Intanto la sua armata diventava solo un elefantiaco congegno di distruzione: Grozny, Aleppo… Ieri i suoi gerarchi, stipendiati e mercenari, si sono congratulati di quel loro speciale valore. Creare due, tre, molte Mariupol, tante quante sono le città dell’Ucraina sorella.
Da noi si preparano grandiose manifestazioni, per la pace. La rappresaglia russa (e non è che l’inizio, dice) è un malaugurato incidente sulla loro strada. L’allarme e l’appello alla mobilitazione per la pace hanno sonnecchiato davanti alle offensive e alle bravate e alle infamie dell’esercito russo, e si rianimavano davanti alle controffensive delle forze ucraine. In un altro incidente il pacifismo equidistante si era appena buttato a capofitto, logico questa volta. Dopo essersi ostinatamente attenuto alla tesi della guerra per delega, si è messo di colpo a sostenere il contrario: che è il diabolico Zelensky a condurre il gioco facendo ballare al suo filo Stati Uniti Nato ed Europa. E’ l’esito paradossale di chi interpreti le cose con il criterio pseudomachiavellico della proxy war. E non sappia riconoscere che in un impegno di vita e di morte come quello della resistenza ucraina la responsabilità sia almeno – almeno – reciproca.
Il “burattino” Zelensky doveva essere “esfiltrato” il primo giorno. Decise di no. E’ la causa della fiducia che gli ucraini gli accordano tenacemente. Non è un’investitura per il dopo, per il tempo della pace e del ritorno della politica e della democrazia. E’ il patto di stare dalla parte di chi, votato da loro, sta dalla loro parte, a questo costo. Non occorre a loro, e tanto meno a noi, amare o odiare Zelensky. Un vero culto della personalità sta nel trasporto di odio e scherno che anima i suoi nemici tra noi.
Gli ucraini rivendicano di battersi anche per l’Europa e la democrazia e la sua idea della libertà: ma le ucraine e gli ucraini si battono prima di tutto, e a ogni costo, per la propria libertà, per la propria città. Bisogna saper immaginare che cosa si può sopportare nella propria città. A Kyiv ieri temevano che altri missili facessero mancare acqua, gas, luce. A Sarajevo mancarono per anni.
Dalle piazze ai palazzi