l'ostaggio del cremlino

La vendetta di Putin brutale e troppo dispendiosa

Micol Flammini

Il presidente russo si schiera con i falchissimi e per la rappresaglia senza precedenti mette su un attacco contro infrastrutture strategiche e civili. Chi gioisce in Russia chiede che non sia un evento sporadico

Un missile russo Kh-101 costa 13 milioni di dollari, un Kalibr 6,5 milioni, un Iskander 10 milioni. L’attacco russo su larga scala contro l’Ucraina è stato senza precedenti, ha colpito infrastrutture strategiche – alcune zone dell’Ucraina sono senza luce e acqua – e infrastrutture civili come università, musei, parchi, condomini. Se si conta che in tutto sono stati lanciati quasi ottanta missili e  più di quaranta sono stati intercettati, il bombardamento martellante è stato anche molto dispendioso. Il presidente russo, Vladimir Putin, ha parlato al suo Consiglio di sicurezza per dire che gli obiettivi designati erano stati raggiunti, era soddisfatto, ha descritto l’attacco come una vendetta per l’esplosione avvenuta sabato sul ponte che collega la Crimea alla Russia e ha minacciato nuovi bombardamenti su tutto il territorio se l’Ucraina porterà a termine altri “attacchi terroristici”. 

 

In un solo giorno Mosca ha ucciso e distrutto più del solito, ha mostrato una potenza brutale devastante che però non può rivelarsi una strategia vincente: l’esercito russo non ha un numero di missili né una capacità di rifornirsi sufficienti a trasformare questi bombardamenti in una costante. L’attacco è sembrato uno sfogo di vendetta, un rantolo mortale di rabbia, gestito dal nuovo generale nominato sabato per dirigere l’“operazione militare speciale”, Sergei Surovikin. Il nuovo uomo incaricato della guerra è un soldato spietato, aggressivo, combattivo: il volto che rappresenta un cambiamento non tanto di strategia da parte della Russia, quanto nel  modo  di Putin di percepire la guerra. Non esistono colombe attorno al presidente, ma finora tra i vertici militari litigiosi che si sono scontrati nelle ultime settimane erano due le correnti prevalenti: quelli a favore della guerra e quelli a favore della guerra-per-amore-della-guerra. L’attacco di ieri, la nomina di Surovikin, l’insistenza  nel chiamare le azioni degli ucraini “atti terroristici” indicano che tra le due correnti ha prevalso la seconda, che non ragiona per obiettivi da raggiungere, ma per quantità della distruzione. In russo, uno dei verbi per dire distruggere è unichtozhit’: ridurre al nulla. 

 

L’attacco al ponte che attraversa lo stretto di Kerch è stato visto dal Cremlino come un affronto al prestigio putiniano, era stato Putin in persona a inaugurare il viadotto mettendosi alla guida di un camion, e l’esplosione è stata vissuta come un episodio molto più grande di una controffensiva o dei precedenti attacchi in Crimea. Un’umiliazione che non poteva essere lasciata senza una risposta. La cerchia di Putin ha gioito, la direttrice di Rt, Margarita Simonyan, che aveva definito l’attacco al ponte una “linea rossa” ha recuperato i toni sarcastici di sempre: “Eccovi una piccola risposta. Cvd”. L’ex presidente Dmitri Medvedev ha suggerito che l’obiettivo in futuro dovrà essere “il completo smantellamento del regime politico in Ucraina”. Il giornalista Alexander Kots ha detto di sperare che non si sia trattato di “un atto di punizione sporadico, ma di un nuovo sistema per portare a termine il conflitto … fino a quando l’Ucraina non smetterà di funzionare”. In un ambiente che si divide tra falchi e falchissimi, sarà complesso spiegare che i bombardamenti di ieri non possono essere una regola, l’esercito russo non ha le capacità e  non ha alleati a cui chiedere nuovi missili. Surovikin sarà pur il  generale che ha fatto dei bombardamenti martellati uno dei suoi metodi di combattimento, usato ad Aleppo e a Goutha, ma deve fare i conti con le carenze dell’esercito russo dopo più di sette mesi di una guerra che avrebbe dovuto essere lampo. 

 

Il presidente russo ha voluto riavvolgere il nastro, ha rimesso l’Ucraina e il mondo davanti a un nuovo 24 febbraio, giorno di inizio dell’invasione. Anche le sue amicizie non sono cambiate: il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka ha annunciato che le truppe russe torneranno in grande quantità nel suo paese e ha promesso che non si tratterà soltanto di un migliaio di soldati ma che i due eserciti saranno fianco a fianco. E’ una delle poche alleanze rimaste alla Russia, ma che da offrire ha soltanto un confine in più da cui attaccare Kyiv. 

 

Se Putin voleva dimostrare che la guerra non l’ha persa, che ha ancora opzioni da utilizzare in combattimento  prima della minaccia nucleare, che può colpire Kyiv, Leopoli, Ternopil, che non è disperato, che la sua vendetta non ha confini, che lui non torna indietro, l’ha fatto schierandosi con il partito della guerra-per-amore-della-guerra, e ora è in suo ostaggio. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)