La protesta larga
La serrata del bazar e lo sciopero del settore petrolifero preoccupano il regime iraniano
I lavoratori del petrolio hanno affermato di voler esprimere la loro rabbia dopo la morte di Mahsa Amini. Così si sono fermate le raffinerie, per le donne e contro Khamenei. Intanto, i vertici del paese sono sempre più stretti nella morsa con la Russia
Quand’è che una rivolta diventa una rivoluzione? È la domanda che si fanno gli iraniani che scendono in strada a sfidare la furia dei bassiji e pretendono di non essere più chiamati manifestanti, la stessa che brilla negli occhi delle ragazzine coraggiose trascinate fuori dalle classi per i capelli, la stessa domanda che scandisce le ore dei cittadini di Sanandaj, brutalizzati da una repressione così cruenta che si faticano a trovare le parole per raccontarla. La risposta per ora non la conosce nessuno, in attesa che tutto diventi inevitabile, irreparabile, si aspetta, un gesto dopo l’altro, la notte per gridare e la mattina per tornare a sperare.
La verità è che cosa ne sarà di questa sfida appassionata al sistema khomenista non sono in grado di dirlo nemmeno gli analisti, nel frattempo però un paio di segnali stanno rendendo il regime sempre più inquieto.
“Immaginano di poter realizzare i loro piani malvagi nelle università, ma i nostri studenti e i nostri professori sono in allerta e non glielo permetteranno”, ha detto Ebrahim Raisi sabato scorso durante una visita all’università femminile al Zahra, ma mentre il presidente iraniano procedeva a paragonare i rivoltosi alle mosche e le studentesse gli rispondevano per le rime, a Teheran il bazar era in sciopero. Non si tratta di un dettaglio da poco, sebbene il bazar abbia in parte perduto il ruolo preminente che rivestiva nella società iraniana, sebbene non sia la prima volta negli ultimi anni in cui si è verificata una serrata: quando il bazar rumoreggia per la la mullahcrazia iraniana è sempre una cattiva notizia.
“I rivoltosi hanno minacciato i commercianti e li hanno obbligati a chiudere”, ha commentato domenica il quotidiano dei falchi Kayhan, poi però lunedì e martedì alla pessima notizia del bazar ne è seguita una anche peggiore. “Noi, i lavoratori del comparto petrolifero, all’unisono con il popolo iraniano, vogliamo esprimere per l’ennesima volta la nostra rabbia e il nostro disprezzo dopo l’assassinio di Mahsa Amini. Sosteniamo la lotta della popolazione al crimine organizzato contro le donne”, si leggeva in una nota diffusa dall’organo che rappresenta i lavoratori a contratto del settore petrolifero. Era il segnale che tutti aspettavano e, dopo gli avvertimenti della settimana scorsa, la reazione è arrivata. Lunedì lo sciopero ha interessato le raffinerie di Bushehr, Borzovieh, Hemgan e Asaluyeh. “Morte al dittatore!”, “Questo è l’anno del sangue, Seyyed Ali Khamenei è finito”, hanno gridato gli operai.
A stretto giro l’inflessibile capo della Giustizia iraniano, Gholam Hossein Mohsen Ejei, se n’è uscito con un’offerta di dialogo (“se abbiamo commesso degli errori, possiamo correggerli”) che ai più è parsa come un segno di debolezza. E martedì è stata la volta di Abadan, la più vecchia raffineria del medio oriente, punto nodale della nazionalizzazione dell’industria petrolifera ai tempi di Mossadegh prima e della rivoluzione del ’79 dopo. Al netto dell’impatto simbolico, è ancora presto per stabilire che effetto avrà questa mobilitazione, molto dipenderà dalla durata e dal numero di lavoratori che vi parteciperanno. Al momento gli scioperi hanno coinvolto i contractor, ma negli ultimi anni il settore ha già attraversato fasi di fortissima tensione e la saldatura tra l’aspetto politico-ideale e quello economico potrebbe rivelarsi dirompente.
Secondo l’esperto del Carnagie Endowment Karim Sadjadpour, per il regime una lunga ondata di scioperi nel settore petrolifero sarebbe insostenibile. “All’inizio del ’78 l’Iran, con una popolazione pari a 35 milioni di persone, produceva 6 milioni di barili al giorno. Allora l’effetto degli scioperi fu di ridurre la produzione a 1,5 milioni di barili al giorno, il che portò il governo al collasso. Oggi l’Iran, con una popolazione di 83 milioni di persone, produce 2,5 milioni di barili al giorno. Non è in grado di sostenere uno sciopero prolungato”.
Nel frattempo la dirigenza iraniana è sempre più stretta in un abbraccio mortale con la Russia. Sull’Ucraina piovono droni di fabbricazione iraniana, Vladimir Putin e Ali Khamenei appaiono in perfetta sintonia nella loro lotta contro il liberalismo occidentale (è a Teheran che è volato Putin quest’estate per la sua prima sortita fuori dai confini dell’ex impero sovietico dall’inizio della guerra in Ucraina), ma intanto Teheran e Mosca stanno combattendo una battaglia senza esclusioni di colpi nel mercato asiatico degli idrocarburi, e il regime iraniano ne sta uscendo con le ossa rotte. “Non lo capite? Stanno distruggendo il mercato”, ha detto a luglio, a proposito della Russia, Hamid Hosseini, portavoce dell’Unione esportatori di petrolio, gas e prodotti petrolchimici. Ma un regime capace solo di pensare alla propria sopravvivenza non ha tempo di soffermarsi sull’interesse nazionale.