VERSO IL 20° CONGRESSO DEL PARTITO / -3
La Via della Seta è il progetto di vanità cinese fallito nel giro di un Congresso
Xi Jinping aveva puntato tutto sulla sua proiezione d'influenza all'estero, ma ora che non ci sono soldi restano molti dubbi
Se c’è un’espressione che ha caratterizzato l’ultimo decennio cinese e la leadership di Xi Jinping, quella è senza dubbio “Via della Seta”. E’ stato per lungo tempo lo slogan usato più frequentemente, l’ombrello col quale caratterizzare ogni iniziativa cinese all’estero, dal business alla diplomazia. Ma negli ultimi mesi qualcosa è cambiato, la Cina si sta richiudendo su sé stessa e con il Congresso del Partito ormai alle porte, l’espressioni da tenere d’occhio è proprio quella che definisce il grande progetto strategico d’influenza cinese. La sua assenza nei documenti ufficiali della prossima settimana potrebbe significare un possibile cambiamento delle priorità di Pechino – e, di conseguenza, anche l’ennesimo possibile fallimento delle politiche di Xi Jinping.
Era il 2013 quando Xi, da Astana, in Kazakistan, nell’ambito di un più ampio tour dei paesi dell’Asia centrale, evocò per la prima volta l’antica Via della seta per promuovere gli investimenti e le amicizie cinesi con i paesi vicini. Per anni nessuno aveva idea di cosa fosse esattamente il progetto: non aveva contorni precisi nemmeno per i funzionari cinesi, che continuavano a chiamarlo con varie espressioni, tra cui “One Belt One Road”, “Belt and Road Initiative”, e altrettanti acronimi. Da potenza regionale la Cina si stava preparando a diventare una potenza internazionale attraverso investimenti su infrastrutture, potenziamento delle vie del commercio, linee di credito aperte per paesi amici in difficoltà. Nella logica della leadership di Xi, la Via della Seta avrebbe dovuto gettare le basi del cambiamento del sistema globalizzato dall’interno, al fine di proiettare la sua influenza all’estero e poi usare questo potere in caso di necessità, per influenzare le decisioni dei governi locali oppure minacciare ritorsioni economiche, fare boicottaggi, coercizione.
Quattro anni dopo il suo lancio sulla scena mondiale, nei documenti del precedente Congresso del Partito del 2017, la Via della Seta diventa “una priorità”, tanto che l’espressione viene inserita nella Costituzione del Partito comunista cinese, la carta fondamentale del partito, al fine di “raggiungere una crescita condivisa attraverso la discussione e la collaborazione”. Nello stesso periodo, mentre alla Casa Bianca risiede Donald Trump e la sua guerra commerciale contro la Cina è ormai dichiarata, Xi Jinping fa la sua prima apparizione al vertice economico di Davos e, in un discorso molto commentato dagli analisti, cerca di intestarsi la leadership del multilateralismo e della globalizzazione “con caratteristiche cinesi”. Fu quello uno dei colpi di genio del leader cinese: di fronte a un capo del mondo libero umorale e irrazionale, che evoca il protezionismo via Twitter, Xi cerca di fare la parte dell’adulto nella stanza. In molti ci credono, senza considerare le contraddizioni che quel discorso porta con sé in termini di diritti umani, di trasparenza, di accesso al libero mercato. Anche l’Italia di Paolo Gentiloni quell’anno partecipa al primo Forum sulla Via della Seta di Pechino; un paio di anni dopo il governo gialloverde di Lega e Cinque stelle addirittura aderisce in pompa magna al progetto. Il bluff però dura poco, soprattutto con le economie più sviluppate.
Cinque anni dopo l’ultimo Congresso la Cina è sempre più chiusa, sempre più autoritaria, ma c’è anche un altro problema: la Via della Seta non funziona più. Già da qualche tempo, dall’Asia all’Africa, emergono sempre più criticità relative ai progetti d’investimento cinesi – che nel frattempo erano stati raddoppiati con la Via della Seta marittima. Il Piano Marshall a cui è spesso paragonato ha creato enormi problemi di debito per i paesi che hanno deciso di farne parte – progetti che quando sono direttamente cinesi non producono ricchezza condivisa ma soprattutto indebitamento. In Africa alcune infrastrutture cinesi hanno funzionato, ma secondo media e think tank locali arrivano con ingenti richieste di “fedeltà” politica su questioni dirimenti di politica internazionale. Già nel 2019, al secondo Forum sulla Via della Seta (presenziato da Giuseppe Conte per l’Italia) diversi paesi, tra cui la Turchia, decisero di non partecipare per la scarsa trasparenza sui problemi d’indebitamento. “Quando il Suriname non è riuscito a pagare il suo debito, una banca statale cinese ha sequestrato il denaro da uno dei conti del paese sudamericano”, ha scritto la scorsa settimana sul New York Times Keith Bradsher. “Mentre il Pakistan lottava per far fronte a una devastante alluvione che ha inondato un terzo del paese, i rimborsi dei prestiti alla Cina aumentavano rapidamente. Quando i kenioti e gli angolani si sono recati alle urne per le elezioni presidenziali di agosto, i prestiti cinesi di questi paesi e le modalità di rimborso sono stati un tema politico di grande attualità. In gran parte del mondo in via di sviluppo, la Cina si trova in una posizione scomoda, un gigante geopolitico che ora detiene un’influenza significativa sul futuro finanziario di molte nazioni, ma che è anche debitore di enormi somme di denaro che potrebbero non essere mai rimborsate per intero”. Ad agosto, Pechino ha condonato circa lo 0,3 per cento dei suoi prestiti ai paesi africani, e allo stesso tempo accusa l’America di non fare abbastanza sui suoi, di debiti, da riscuotere nelle aree fragili del mondo, ma i prestiti occidentali funzionano in modo completamente diverso (di solito si tratta di sovvenzioni, non prestiti). La Via della Seta sta diventando per Xi anche un problema di tenuta interna, e più che la propria influenza all’estero, l’argomento prioritario al prossimo Congresso sarà quello del debito.