Rubli e kalashnikov

Putin non riesce più a gestire lo stato nello stato che ha creato in vent'anni

Micol Flammini

La Russia evacua Kherson e il presidente russo dovrà spiegare ai suoi anche questo fallimento. Non gestisce più l'equilibrio tra le fazioni e una lo tiene in ostaggio

Gli attacchi russi iniziati lunedì contro tutto il territorio ucraino hanno oscurato il ritmo costante della controffensiva dell’esercito di Kyiv per liberare i territori meridionali, e quando ieri l’uomo del Cremlino a Kherson, Volodymyr Saldo, ha chiesto aiuto a Mosca per evacuare i cittadini rimasti, le condizioni sul campo di battaglia si sono fatte di nuovo chiare: l’Ucraina avanza e la Russia, nel migliore dei casi retrocede, nel peggiore, scappa. Saldo ha detto che gli ucraini attaccano perché non accettano il risultato del referendum illegittimo con cui l’oblast avrebbe deciso di essere annessa alla Russia, e nel chiedere aiuto al Cremlino ha sottolineato: “Noi sappiamo che la Russia non abbandona i suoi”. La preghiera è stata esaudita: Mosca evacuerà Kherson e il Cremlino è al punto di partenza, sia in Ucraina sia nel regolare le faide che si creano attorno al presidente. 

 

Nominando a capo delle operazioni in Ucraina Sergei Surovikin, il presidente russo Vladimir Putin aveva dimostrato che, nella guerra tra correnti dentro al Cremlino, aveva scelto con chi stare: i più falchi dei falchi che hanno individuato nel ministro della Difesa, Sergei Shoigu, la persona da incolpare per i fallimenti sul campo di battaglia. Finora Putin era riuscito a mantenere in equilibrio attorno a sé clan, correnti e fazioni, la sua equidistanza gli consentiva di fare in modo che nessuno prevalesse sull’altro, ma la guerra e le sconfitte in Ucraina hanno tolto a Putin questa abilità e adesso ha legato l’esito del conflitto alla sua permanenza al Cremlino. Ad aver lodato il generale Surovikin è stato Evgeni Prigozhin, che lo aveva definito “il più competente dell’esercito russo” e la sua nomina è sembrata un modo per accontentare il finanziatore delle milizie mercenarie della Wagner che hanno combattuto tutte le ultime guerre del Cremlino e stanno combattendo anche in Ucraina. Prigozhin ha trovato una spalla nel leader della Cecenia, Ramzan Kadyrov, che è stato il primo, dopo le minacce del presidente russo, a evocare l’uso di armi tattiche nucleari contro l’Ucraina. Kadyrov e Prigozhin hanno due cose in comune: hanno gli uomini da mandare in guerra, il finanziatore della Wagner ha anche dato la possibilità ai carcerati di andare a combattere e avere in cambio l’amnistia, e in questi anni hanno anche ottenuto del denaro e contratti dal Cremlino. Non sono due politici, non hanno nulla a che fare con le élite finanziarie che hanno dimostrato di non avere più alcun peso e ascendente sul presidente russo, ma negli anni si sono incaricati di svolgere molti degli affari più torbidi del Cremlino. Si sono resi indispensabili con le loro armi e in questa guerra, nonostante in un primo momento Shoigu abbia tentato di tenere i mercenari di Prigozhin fuori dal conflitto, stanno avendo il loro momento. 

 

Le tracce dell’instabilità tra le fazioni in realtà c’erano già da alcuni anni, la sensazione che il presidente russo stesse perdendo il controllo su questi gruppi, soprattutto su Kadyrov, risale a prima del 24 febbraio. L’analista Anna Arutnyan scrive sullo Spectator che nel 2015, l’omicidio dell’oppositore Boris Nemtsov a pochi passi dal Cremlino, attribuito ad almeno una persona legata al leader ceceno, ha suscitato una crescente frustrazione all’interno delle agenzie di sicurezza russe. L’assassinio di un oppositore è sia una professione di lealtà nei confronti del presidente sia un avvertimento per dire: agiamo in libertà. Kadyrov e Prigozhin sono diventati concorrenti diretti delle istituzioni russe, sanno usare i momenti di instabilità, di vulnerabilità e hanno anche le armi per farlo. Il presidente russo si è messo nelle loro mani. Per otto anni, in Donbas, per portare avanti la guerra e per preparare il terreno per l’invasione del 24 febbraio, la Russia si è affidata a uomini ombra, a uno stato parallelo a cui sono stati dati soldi, potere e a cui sono state fatte promesse. E’ nato uno stato nello stato, ma anche questo appoggiato e presieduto da Putin. Prigozhin e Kadyrov non sono i soli, Igor Girkin, ex ufficiale dell’Fsb che nel 2014 condusse alcuni uomini in Ucraina e credeva che la guerra andasse portata avanti a ogni costo, fa parte di questo sottobosco. Non fa più parte dell’agenzia di intelligence, ma per otto anni  ha continuato la guerra anche con l’avallo di Putin.

 

In questi venti anni il presidente ha promosso e delegato, ha mantenuto la centralità, ma questo gruppo composito che ha legato al conflitto in Ucraina il suo successo, è pronto a tutto pur di non perdere. E il capo del Cremlino  che in questi anni ha coltivato l’illusione di poter tenere a bada questa guerra tra clan, sembra aver perso il tocco e anche il controllo, finendo ostaggio del sistema che ha creato.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)