contro l'occidente
La Russia bombarda i serbatoi di olio e grano affamando i paesi più poveri
L'attacco ai terminal di Mykolaïv dimostra come Mosca consideri la destabilizzazione di intere regioni del mondo come parte di una strategia più ampia. Anche la contrazione dei flussi del gas russo ha messo in crisi le economie di nazioni più fragili, come il Pakistan e il Bangladesh
Vladimir Putin racconta l’invasione dell’Ucraina come una guerra necessaria contro l’“occidente collettivo”, una minaccia non solo per la Russia ma per tutte le nazioni non omologate al sistema unipolare imposto dagli Stati Uniti, in una rappresentazione che vede la sua Russia – e la Cina di Xi Jinping – come le potenze che guideranno il “sud globale” verso un mondo multipolare più giusto e rispettoso delle sovranità nazionali.
Al di là della qualità di queste narrazioni, le conseguenze delle azioni russe dimostrano che Mosca non solo non si cura delle necessità dei paesi in via di sviluppo, ma considera la destabilizzazione di intere regioni del mondo come parte di una strategia che va oltre la punizione collettiva inflitta agli ucraini che non si arrendono. Da giorni la Russia sta colpendo obiettivi civili e infrastrutture critiche in tutta l’Ucraina. Missili da crociera e droni suicidi di fabbricazione iraniana hanno preso di mira aree residenziali, centrali elettriche, acquedotti, ferrovie e ponti a Kyiv, Odessa, Dnipro, Kharkiv, Lviv e altre città. Ciò fa parte della rappresaglia per il sabotaggio del ponte di Crimea, ma c’è dell’altro. Lunedì un attacco mirato scagliato con tre droni suicidi ha distrutto i serbatoi di un terminal per olio di semi di girasole nel porto di Mykolaïv, sollevando così preoccupazioni per una rinnovata turbolenza dei prezzi globali di un prodotto che rappresenta un punto fermo delle filiere alimentari internazionali.
Mykolaïv è uno dei porti più grandi del paese, ma dall’inizio dell’invasione è sotto attacco e le esportazioni sono interrotte. I terminal sono stati colpiti almeno due volte, a giugno e agosto. Kyiv chiede da settimane di aprire il porto per aumentare le esportazioni agroalimentari nel contesto dell’accordo mediato da Nazioni Unite e Turchia, che ha permesso di liberare le esportazioni di grano e non solo, bloccate per cinque mesi dall’assedio russo dei porti ucraini del Mar Nero. Il blocco ha causato una carenza nell’offerta e un aumento dei prezzi globali che ha colpito duramente i paesi dell’Africa e del medio oriente, costretti dalla Russia a una crisi resa ancora più grave dalla siccità e dal caldo estremo di una stagione estiva molto severa. Secondo i dati del ministero dell’Agricoltura ucraino citati da Reuters, l’accordo sta funzionando: nei primi 17 giorni di ottobre l’Ucraina ha esportato 2,12 milioni di tonnellate di grano rispetto a 2,17 milioni nello stesso periodo dell’anno scorso, appena il 2,4 per cento in meno a fronte di un dato che su base annua vede una riduzione del 35 per cento (10,8 milioni di tonnellate rispetto a 16,5 milioni di tonnellate). L’accordo scade a novembre e ha bisogno di essere rinnovato, ma il Cremlino ha già detto che la decisione dipende dall’allentamento delle sanzioni da parte dell’occidente, rimettendo sul tavolo la minaccia del ricatto alimentare. Un piano a cui Mosca lavora da mesi. A luglio infatti il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha visitato diversi paesi africani per dire loro che la carenza globale di grano e fertilizzanti che li sta colpendo è colpa delle sanzioni occidentali alla Russia.
La settimana scorsa il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba era impegnato in un tour diplomatico per contrastare questa narrazione, visitando Senegal, Costa d’Avorio, Ghana e Kenya ringraziandoli per aver votato in sede Onu a favore della condanna delle annessioni della Russia di quattro regioni ucraine. Kuleba ha detto che Africa e Ucraina “sono sulla stessa barca”, accusando il Cremlino di innescare una crisi globale per fini geopolitici mettendo a rischio la sicurezza alimentare del continente africano. Anche con l’energia succede lo stesso. Non è una minaccia solo per l’Europa: le conseguenze, anche peggiori, le pagano i paesi più poveri nel resto del mondo. La fortissima contrazione dei flussi del gas russo ha portato a un aumento dei prezzi del gas naturale liquefatto (Gnl), acquistato dall’Europa per compensare il calo delle forniture russe, che ha messo in crisi le economie di paesi fragili come il Pakistan e il Bangladesh, ora costrette a razionamenti e blackout energetici. Mosca non si cura delle conseguenze globali delle sue azioni, e quando lo fa è per proiettare verso l’esterno la stessa paura e instabilità che ha portato in patria e nei paesi vicini. Le ritorsioni sui civili, l’intimidazione dell’atomica, il ricatto energetico e la minaccia di una crisi alimentare. La strategia è sempre la stessa, nei confronti dell’Ucraina, dell’Europa e del resto del mondo più povero.