Via gli smartphone
Con Pechino non facciamo gli errori fatti con Mosca, dice l'Ue
La riunione blindatissima di ieri è durata tre ore, e nonostante ci sia un certo consenso sull’atteggiamento sempre più autoritario e aggressivo della Cina
Niente smartphone nella stanza: si parla di Cina. Una precauzione inusuale, ieri, è stata presa al Consiglio europeo subito prima che iniziasse la discussione sui rapporti dell’Ue con Pechino. Durante la precedente riunione sull’Ucraina non ce n’era stato bisogno. Del resto, i leader dei paesi membri dell’Ue non avevano una discussione su Pechino da circa un anno. E in un anno è cambiato il mondo. Ma le divisioni a Bruxelles su come trattare la questione cinese ormai somigliano molto a quelle sulla Russia. Due sono i problemi principali: la Germania e l’Ungheria.
A Bruxelles circolano varie versioni sui motivi dell’estrema cautela che ha portato a fare improvvisamente del Consiglio una no-smartphone-zone: negli ultimi mesi diverse notizie che riguardavano Taiwan e la Cina sono trapelate prima ancora che fossero rese pubbliche, e in generale si avverte una maggiore attenzione al pericolo della sorveglianza cinese attraverso i dispositivi tecnologici. La riunione blindatissima di ieri è durata tre ore, e nonostante ci sia un certo consenso sull’atteggiamento sempre più autoritario e aggressivo della Cina – che domenica incoronerà Xi Jinping leader per la terza volta, con un potere sempre più concentrato nelle sue mani – sono emerse tutte le complessità del gestire la relazione con un paese che potrebbe essere, in futuro, una nuova Russia, vale a dire una potenza autoritaria dalla quale siamo dipendenti e che avrebbe una leva economica per i suoi ricatti politici (e forse non solo politici). Al termine del Consiglio, l’ormai ex presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha detto che durante la discussione tutti i leader europei sono stati d’accordo su un punto: “Non dobbiamo ripetere l’errore che abbiamo fatto con la Russia, cioè essere indifferenti, indulgenti, superficiali, perché quelli che sembrano rapporti d’affari da parte nostra non sono così dall’altra parte”, e finiscono per essere parte di una “regia complessiva cinese”.
Ma le divisioni in realtà esistono, e c’è da notare una certa sovrapposizione tra i paesi che auspicano più durezza contro la Russia e quelli che chiedono le stesse cautele con la Cina. Per esempio ieri i paesi baltici – che due mesi fa sono usciti dalla piattaforma d’influenza di Pechino nell’Europa orientale, il 17+1 – sono stati quelli più falchi sul contenimento cinese: “La Cina si affronta meglio quando siamo in 27, non quando siamo uno contro uno”, ha detto il primo ministro lettone Krisjanis Karins. Nel frattempo la Lituania continua a subìre un boicottaggio economico da parte di Pechino per l’apertura, nell’inverno scorso, di un ufficio di rappresentanza di Taiwan nella capitale Vilnius, e mercoledì scorso la missione in Corea del sud del ministro della Difesa polacco, Mariusz Blaszczak, è saltata perché la Cina non ha autorizzato il sorvolo del suo spazio aereo, molto probabilmente per via dell’intensificazione dei rapporti Varsavia-Taipei. Anche la prima ministra finlandese Sanna Marin ha detto che “non dovremmo dipendere dai regimi autoritari su questioni critiche come la tecnologia”. Così, quando il cancelliere tedesco ha confermato il suo viaggio in Cina che inizierà venerdì con una delegazione di uomini d’affari, la Germania si è trovata di nuovo a dover giustificare all’Unione la sua posizione dialogante e disposta ad aprire le porte a Pechino, per esempio con una quota di un terminal del porto di Amburgo da consegnare al colosso cinese Cosco. L’uomo più vicino a Xi dell’Ue, Viktor Orbán, ieri è stato particolarmente defilato, e avrebbe parlato di “più autonomia”, riporta Politico. Di lui, però, in pochi si fidano.