Putin come Stalin
La doppia tortura degli ex prigionieri di guerra russi, processati in patria come traditori
Chi torna in Russia rilasciato dal nemico è subito sospettato di diserzione. I processi e la prigionia nei gulag li aveva raccontati Solgenitsin. A Mosca oggi si punisce la "resa volontaria" con il carcere fino a dieci anni
Sessant’anni fa, il 18 novembre 1962 sulla rivista letteraria sovietica Novyj Mir apparve “Una giornata di Ivan Denisovich”, romanzo di esordio di Aleksandr Solgenitsin. E le 100.000 copie della tiratura si esaurirono in poche ore: tanta fu l’impressione che fece quel racconto su 24 ore di un detenuto in un campo di lavoro dell’epoca staliniana. Per la precisione, nel 1951. Massimo frutto culturale della destalinizzazione voluta da Kruscev, corrisponde al tempo stesso con la sua fine, quella storia è innanzitutto una straordinaria lezione morale in cui il protagonista, erede della lunga serie di umiliati e offesi e anime semplici sale della terra che ha fatto la storia della letteratura russa, mostra come sia possibile per un uomo conservare intatta la propria dignità pur stando immerso in un inferno. Ovviamente, è l’inizio di una grande inchiesta e denuncia sull’universo concentrazionario sovietico, che poi prenderà tutta la parte più significativa della vita dello scrittore. Ma, più in dettaglio, rivela anche come i soldati dell’Armata rossa che erano stati presi prigionieri dai tedeschi dopo la liberazione furono mandati sistematicamente in quello che, appunto, dalle opere di Solgenitsin il mondo inizierà a conoscere come Gulag. Glavnoe Upravlenie LAGerej i mest zakljuchenija: Direzione generale dei campi e dei luoghi di detenzione.
Sessant’anni dopo, il 25 settembre 2022 il presidente russo Vladimir Putin ha firmato gli emendamenti al codice penale che includono un nuovo articolo sulla “resa volontaria”, per cui qualsiasi soldato russo che si arrende “volontariamente” sarà condannato da tre a dieci anni di carcere. E dieci anni sono appunto la stessa condanna che aveva ricevuto Ivan Denisovich Suchov! In questa sorta di eterno ritorno russo, in realtà non tutto è uguale a prima. Se non altro, perché nel 1941 l’Urss era stata aggredita dalla Germania di Hitler, mentre nel 2022 è stata la Russia ad aggredire l’Ucraina.
Allora scattò dunque tra i soldati dell’Armata Rossa un elementare spirito patriottico, anche se la patria era sotto un regime quanto mai oppressivo. Stavolta invece motivare i combattenti è molto più difficile, come dimostrano le fughe di massa all’estero seguite alla proclamazione di una mobilitazione sia pure parziale. Se vogliamo, le lunghe code ai confini di Finlandia, Armenia o Kazakistan sono addirittura meno imbarazzanti che non i video di interi equipaggi che alzano la bandiera bianca su un carro armato e si vanno a consegnare. Gli ucraini, d’altronde, tengono a far sapere che ormai la maggior parte dei loro veicoli corazzati è costituita da mezzi nemici catturati.
I soldati dell’Armata rossa, presi prigionieri dai tedeschi, dopo la liberazione finivano sistematicamente nell’arcipelago Gulag
Addirittura, dal 18 settembre il governo di Kyiv ha lanciato la hotline “Voglio vivere” per incoraggiare la resa. Ci sono due numeri dedicati, raggiungibili 24 ore su 24. C’è un canale Telegram ufficiale (@hochu_zhyt), in russo, che termina sistematicamente i suoi messaggi invitando i soldati ad abbandonare le armi “per non tornare casa in sacchi neri”. E c’è perfino un bonus che viene concesso ai russi che si consegnano portando con sé l’equipaggiamento.
La procedura è semplice, efficiente, con anche una piccola nota di benvenuto. “Benvenuto nel chatbot ‘VOGLIO VIVERE’, il call center per i prigionieri di guerra”. “Il quartier generale accetta le richieste dei militari e ti garantisce il rispetto delle Convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra”. “Di solito rispondiamo entro un giorno”, si legge in un secondo messaggio. Quindi basta seguire le istruzioni, dettate passo dopo passo, per “mettersi in salvo e salvarvi la vita”. Se la procedura viene abbandonata nel corso del processo, il chatbot lo ricorda il giorno successivo con un nuovo messaggio: “Si è verificato un problema e la tua chiamata non è stata completata. Per contattare la sede e consegnarsi, ripetere la procedura”.
Victor Davidoff è un vecchio dissidente e attivista per i diritti umani dell’epoca sovietica che tra 1993 e 2005 fu direttore dell’agenzia Globus e l’anno scorso ha scritto il libro “Il nono cerchio” sull’abuso della psichiatria come strumento di repressione politica nell’Urss. Sul giornale di opposizione in inglese ormai costretto all’esilio Moscow Times ha tracciato una “lunga, brutale storia dei prigionieri di guerra russi” in cui ricorda come questo tipo di repressione si collega direttamente a Stalin. Ivan Denisovich era appunto un soldato contadino rimasto prigioniero per due giorni dei nazisti nel corso di una battaglia. “Secondo l’incartamento Suchov era stato condannato per alto tradimento. Del resto lui stesso aveva deposto che, sì, si era arreso perché voleva tradire la patria ed era ritornato dalla prigionia perché gli era stata affidata una missione dal servizio segreto tedesco. Quanto al carattere della ‘missione’, né Suchov, né il giudice istruttore seppero inventare alcunché di plausibile. Così scrissero semplicemente: ‘Una missione’. Il calcolo di Suchov era stato semplice: se non firmi, vai a ingrassare i cavoli; se firmi, magari campi un altro po’. Firmò”.
Dal 18 settembre il governo di Kyiv ha lanciato la hotline “Voglio vivere” per incoraggiare la resa. Ci sono due numeri dedicati sempre raggiungibili
In realtà, però, prima della Grande guerra patriottica contro l’invasione nazista, l’Armata rossa si era messa essa a invadere di suo, proprio in base agli accordi col Terzo Reich del patto Molotov-Ribbentrop. E se le mosse contro la Polonia già attaccata dai tedeschi, la Romania, la Lituania, la Lettonia e l’Estonia si erano svolte in pratica senza colpo ferire, la Finlandia aveva invece resistito con le unghie e con i denti. Scrivendo adesso, Davidoff parte appunto dalle somiglianze tra l’attacco del 2022 all’Ucraina e quello del 1939 alla Finlandia. Esattamente come Putin, Stalin si aspettava che sarebbe stata una “guerra di tre giorni”. Ma, dopo tre mesi di combattimenti, l’Unione sovietica non aveva ancora vinto. E, con sua sorpresa e rabbia, circa 6.000 uomini, compresi comandanti e commissari, si erano arresi. Adesso è andata peggio, visto che la Finlandia riuscì a resistere solo 3 mesi e 12 giorni, mentre l’Ucraina continua dopo otto mesi. E mentre poi la Finlandia ebbe buoni risultati all’inizio ma fu soverchiata nel finale, l’Ucraina al contrario è sembrata traballare all’inizio, ma ora le sta suonando sempre più dure.
Dunque, dopo l’armistizio Stalin decise di dare una lezione all’intero esercito. Più di 500 ex prigionieri di guerra furono fucilati e quasi tutti gli altri mandati nel gulag. Solo 450 tra questi sopravvissero, ma quelli inviati al gulag vengono comunque considerati da Davidoff fortunati. Le pene detentive erano considerate un atto di “misericordia”, poiché il codice penale di quegli anni prevedeva la pena di morte “per la resa non causata da condizioni di combattimento”. Ma il problema tornò all’ennesima potenza dopo l’attacco tedesco all’Urss del giugno 1941, con l’Armata rossa che perse 3,3 milioni di prigionieri entro i primi sei mesi. Il comando tedesco era talmente impreparato a questa fiumana che mise quella massa di uomini in spazi all’aperto circondati da filo spinato, da cui scappare era facilissimo. Ma poi quelli che riuscivano a tornare nei ranghi rischiavano. Se un ex prigioniero poteva provare di essere stato ferito o lasciato senza armi o munizioni prima di essere catturato, veniva rimandato a combattere. Se no si finiva nel Gulag, come appunto Ivan Denisovich.
Anche i rilasciati senza accuse di tradimento rimasero sotto sorveglianza ed ebbero difficoltà per accedere all’istruzione o trovare un lavoro
Racconta Solgenitsin: “Nel febbraio del ’42 sul fronte nord-occidentale tutta la loro armata fu accerchiata dai tedeschi; dagli aeroplani non buttavano loro niente da mangiare, anzi, gli aeroplani non c’erano neppure. Giunsero al punto di raschiare gli zoccoli dei cavalli crepati, macerare nell’acqua quella materia cornea e mangiarla. Non avevano neppure munizioni. Così, i tedeschi li acchiappavano a uno a uno, nei boschi, e li portavano via. Anche Šuchov finì prigioniero, ma due giorni dopo, sempre lassù nei boschi, scappò con altri cinque. Dopo aver girato per i boschi e le paludi riuscirono per miracolo a tornare alle loro linee. Solo che due li stecchì il mitra di una sentinella, un altro morì per le ferite riportate, e così a farcela furono solo in due. Se fossero stati più furbi avrebbero detto che erano stati nei boschi e non gli avrebbero fatto niente. Loro, invece, scodellarono che erano stati prigionieri dai tedeschi. Prigionieri? Figli di puttana! Se fossero stati in cinque, avrebbero potuto, magari, confrontare le deposizioni, avrebbero creduto loro. Ma credere a due no! Si erano messi d’accordo, dicevano, quelle due canaglie!”.
Con 10 anni, pur equivalenti al massimale ora previsto da Putin, Ivan Denisovich poteva comunque considerarsi fortunato. Nel 1943 Stalin avrebbe infatti creato campi speciali per “traditori della patria, spie e terroristi”. Le condizioni erano peggiori, e la pena standard per ex prigionieri di guerra accusati di “tradimento” divenne di 25 anni. Infatti, la prendeva con filosofia: “Mentre stava pigliando sonno, Suchov si sentiva del tutto soddisfatto. La giornata era stata parecchio fortunata: non l’avevano messo in cella di punizione, la squadra non era stata mandata a lavorare al ‘villaggio socialista’, aveva rubato una scodella di cascia d’avena a pranzo, il caposquadra aveva ‘chiuso la percentuale’ bene, il lavoro di muratura era stato per lui un piacere, non gli avevano trovato addosso il pezzo di sega, aveva guadagnato qualcosa da Tsezar, la sera, e aveva comperato del tabacco. E non si era ammalato, aveva resistito. Era trascorsa una giornata non offuscata da nulla, una giornata quasi felice. La pena affibbiatagli, dal principio sino alla fine, contava tremilaseicentocinquantatré giornate come quella. Per via degli anni bisestili si allungava di tre giorni ancora…”, è il famoso finale.
Tutti gli 1,8 milioni di ex prigionieri di guerra sovietici tornati a casa dalla prigionia finirono in speciali campi di filtraggio, molti furono messi al lavoro per ricostruire ciò che era stato distrutto durante la guerra, e almeno il 5 per cento finì processato per “tradimento contro la patria”. Ma anche i rilasciati senza accusa furono messi sotto sorveglianza dalla polizia segreta ed ebbero difficoltà per accedere all’istruzione o a trovare un lavoro. A quel tempo, tutte le domande di lavoro includevano infatti il quesito: “Eri un prigioniero di guerra?”.
Non fu così solo con Stalin. Poiché in Afghanistan all’inizio i mujhaeddin non facevano prigionieri., il noto dissidente sovietico in esilio Vladimir Bukovsky fece pressione sulle autorità statunitensi per far rispettare agli insorti almeno alcune delle regole della Convenzione di Ginevra, e nel 1986, Ludmilla Thorne, membro dello staff di Freedom House, andò direttamente a cercare di persuadere i comandanti sul campo a consegnare prigionieri di guerra sovietici agli Stati Uniti. Ci riuscì con una dozzina, che ebbero asilo politico. Uno di questi, il soldato Nikolai Ryzhkov, contattò l’ambasciatore sovietico a Washington Anatoly Dobrynin, che gli diede personali garanzie di immunità al suo ritorno in Unione Sovietica. Nove giorni dopo essere arrivato a casa, Ryzhkov fu invece arrestato e condannato a 12 anni con la stessa accusa stalinista di “tradimento contro la patria”. I prigionieri di guerra tornati dopo la fine della guerra in Afghanistan all’inizio del 1989 non erano più in pericolo: i campi per prigionieri politici erano stati chiusi. Ma, fino alla fine dell’Unione Sovietica, i loro diritti furono limitati e non potevano né studiare né ottenere un lavoro dignitoso.
Putin si trova oggi nella stessa situazione di Stalin nel 1939 e vuole utilizzare gli stessi metodi. Conclude Davidoff: “Putin non ha mezzi per motivare i suoi soldati a combattere. E ciò è un chiaro segnale che non può vincere questa guerra”.
Attenzione, però. Volontario nell’Armata rossa dopo l’invasione tedesca, Solgenitsin era diventato sul campo capitano di artiglieria, ed era stato decorato due volte e proposto per l’Ordine della bandiera rossa, per avere salvato i suoi uomini in una situazione disperata durante una controffensiva tedesca il 27 gennaio 1945. Ma il 9 febbraio 1945 fu arrestato per aver criticato Stalin in una lettera privata a un amico, e condannato a otto anni di campo di lavoro nei gulag, con successivo esilio in un villaggio del Kazakistan. Ricoverato in ospedale per un cancro da cui riuscì a sopravvivere – base per il romanzo appunto intitolato “Reparto Cancro” – fu poi riabilitato dopo il discorso di Kruscev sui crimini di Stalin. La pubblicazione della “Giornata” è il vertice intellettuale della destalinizzazione, ma è una rondine che non fa primavera, visto che due anni dopo andò al potere Breznev. Solgenitsin non riuscirà più a pubblicare libri in patria fino al 1990, e dopo il Nobel del 1970 nel 1974 sarà costretto all’esilio che durerà fino al 1994.
Le cose peggiorarono quando tornò chi era stato in Europa, perché pur da prigioniero aveva “intravisto un minimo di vita europea”
Ma già tra il 1958 e il 1968 Solgenitsin aveva scritto un saggio di inchiesta narrativa sul sistema dei campi di lavoro forzato nell’Urss. Uscito nel 1973 in Francia, fu intitolato “Arcipelago Gulag”. Costruito oltre che sulla esperienza personale anche sulle testimonianze di altri 227 ex prigionieri e su altre ricerche sulla storia del sistema penale sovietico, lanciò il termine “Gulag” in tutte le lingue, e rappresentò appunto la spinta finale del suo esilio. E “Arcipelago Gulag” torna appunto sulla storia degli ex-prigionieri di guerra con più dettagli. Spiega in particolare che all’inizio i prigionieri ebbero meno di 10 anni, “non essendo ancora stato elaborato lo standard”. Ma poi le cose peggiorarono quando tornarono coloro che erano stati in Europa, perché pur da prigionieri avevano “intravisto un minimo di vita europea”. “Per questa ragione, e non affatto per una semplice resa, fu appunto condannata la maggior parte dei ‘prigionieri di guerra’, soprattutto quelli che dell’occidente avevano visto qualcosa di più del campo di sterminio tedesco”.
A Solgenitsin, però, alla fine l’occidente non piacque troppo. La amara chiusura del cerchio è che prima di morire nel 2008, novantenne, aveva fatto in tempo non solo a dare il proprio appoggio a Putin e a Medvedev, ma anche a esprimere opinioni da cui viene da pensare che avrebbe potuto approvare l’“operazione speciale” in Ucraina.
Ma è vero che con gli intellettuali bastian contrari alla fine non è che si può mai sapere. Pure Jorge Luis Borges prima approvò il colpo di stato del 1976, accettando pure un invito a pranzo col dittatore Videla. Poi di fronte al dramma dei desaparecidos prese drammaticamente le distanze, ammettendo di avere sbagliato, e scrivendo pure un racconto per denunciare la tragedia.