La tentacolare polizia cinese e l'anomalia italiana
Lo scandalo delle stazioni delle Forze di sicurezza cinesi operative in Europa diventa internazionale. Ma in Italia abbiamo addirittura i pattugliamenti congiunti
Un giovane dissidente cinese residente a Rotterdam è stato perseguitato dalla polizia cinese per tre anni per aver criticato il regime sui social network, e nonostante le garanzie dell’asilo concesso all’uomo dai Paesi Bassi. Questo a causa delle “stazioni di polizia d’oltremare” che la Repubblica popolare cinese ha aperto negli ultimi anni pressoché ovunque in Europa. Senza mai chiedere l’autorizzazione ai governi locali. Dopo che l’emittente televisiva olandese Rtl Nieuws ha pubblicato la notizia, l’altro ieri il ministero degli Esteri di Amsterdam ha annunciato un’indagine: “Queste stazioni sono illegali”. A oggi sarebbero 46 le stazioni di polizia che la Cina avrebbe aperto fuori dai suoi confini nazionali, ma potrebbero essere molte di più. Del resto l’opacità con cui si muovono certe operazioni di Pechino è funzionale proprio a questo: rendere difficile la loro definizione secondo standard internazionali di garanzia e di sicurezza. Ma a cosa servano queste “stazioni di polizia d’oltremare” alla Cina è facile da intuire, e il caso di Rotterdam lo dimostra: controllare la fedeltà della popolazione all’estero, magari affidandole missioni operative e di raccolta informazioni, e controllare i dissidenti, costringendoli a rientrare in patria, minacciandoli e manipolandoli.
L’indagine sulle stazioni di polizia cinesi è diventata una questione internazionale. Il 3 settembre scorso il Foglio ha pubblicato per primo la notizia della “Fuzhou Police Overseas Service Station”, una stazione di polizia cinese inaugurata a marzo scorso nella città toscana di Prato. La polizia italiana aveva spiegato al Foglio che l’ufficio non destava particolare preoccupazione perché “si occupa solo di pratiche amministrative e non di pubblica sicurezza”. Eppure la nostra indagine sulle operazioni dell’ufficio a Prato, e le successive inchieste di giornali internazionali in diverse città europee, dimostrano il contrario. A fine settembre, su un report di Safeguard Defenders sulle operazioni transnazionali di polizia cinese, viene pubblicato un elenco di stazioni di polizia d’oltremare in Europa: tra le altre, se ne trova una a Dublino, tre in Portogallo, tre in Francia, addirittura nove in Spagna, solo una in Germania. Di stazioni di polizia cinese in Italia ce ne sarebbero quattro: quella di Prato, infatti, sarebbe solo la punta dell’iceberg, legata al dipartimento di sicurezza della regione cinese del Fuzhou. Le altre tre, a Roma, Milano e Firenze, sarebbero legate al dipartimento della contea di Qingtian, nella provincia dello Zhejiang.
Fra tutti i paesi europei dove sono state scoperte le oscure stazioni di polizia cinese – a volte ufficialmente solo virtuali, e ospitate in sedi di associazioni di cittadini cinesi come quella di Prato – l’Italia è l’unico ad aver accolto, con il supporto di politica e istituzioni, anche dei veri poliziotti cinesi, in carne, ossa e divisa.
Non è stato infatti mai concluso, né rinegoziato, l’accordo per i pattugliamenti congiunti tra Forze dell’ordine italiane e cinesi firmato il 5 ottobre del 2015, nel contesto di una riunione dell’Europol all’Aia, dall’allora direttore centrale della polizia criminale, il prefetto Antonino Cufalo, e il direttore generale del Dipartimento per la cooperazione internazionale del ministero della Pubblica sicurezza cinese, Liao Jinrong – lo stesso funzionario cinese che in un’intervista al Quotidiano del popolo nel 2017 disse che “i tentacoli della sicurezza” cinese si estenderanno ovunque ci sia una “violazione degli interessi nazionali”. E fu proprio nel 2015 che il Parlamento italiano approvò il trattato di estradizione tra Italia e Cina, in una intensificazione delle relazioni anche nel settore giudiziario. I pattugliamenti congiunti tra poliziotti cinesi e italiani partirono l’anno successivo, nel 2016, dopo una conferenza stampa alla presenza di Liao, dell’ambasciatore cinese a Roma Li Ruiyu, del ministro dell’Interno del governo Renzi, Angelino Alfano, e dell’allora capo della polizia, il prefetto Alessandro Pansa. Ufficialmente, come riferito da Pansa, i pattugliamenti congiunti in Italia sarebbero dovuti avvenire soltanto in aree “di interesse turistico per i turisti cinesi”: Roma, Firenze, Milano, Venezia. Nel maggio del 2018 è l’allora prefetto di Milano, Luciana Lamorgese, da ultimo ministro dell’Interno, a inaugurare l’iniziativa milanese.
Due anni dopo però i pattugliamenti iniziano a interessare città come Prato, oppure Padova, quindi fuori dai circuiti turistici tradizionali cinesi ma in aree con altissima densità di immigrazione cinese. Le operazioni delle forze dell’ordine cinesi a Prato, in particolare, ricevono molta attenzione dai media cinesi: in un video su YouTube rilanciato dai canali dei cinesi in Italia si vedono i poliziotti nelle vie di Prato – sempre accompagnati dai colleghi italiani – che raccontano di essere molto rassicuranti per i cinesi, i quali “hanno paura dei marocchini” soprattutto se hanno molti contanti in tasca. I poliziotti cinesi spiegano di essere disarmati. In dotazione però, sulla spalla, hanno una bodycam: un dispositivo che serve a registrare e probabilmente identificare le persone. Prima della sospensione per il Covid e la successiva chiusura della Cina, l’ultimo pattugliamento cinese in Italia c’è stato nel dicembre del 2019. E’ l’ennesimo dossier sulle influenze cinesi in Italia da molto tempo ignorato e che giace sulla scrivania del nuovo ministro Matteo Piantedosi.
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