Lula ha vinto il ballottaggio in un Brasile diviso in due
Il nord premia il candidato di sinistra, centro e sud hanno votato Bolsonaro, che non ha fatto il Trump e non ha (ancora) denunciato brogli.
Come previsto dalla maggior parte dei sondaggi, Lula è tornato alla Presidenza del Brasile. Ha avuto 60.345.999 voti, pari al 50,9 per cento. Come previsto dalla maggior parte degli analisti guardando a quanto era successo al primo turno, Bolsonaro ha ottenuto molto più di quanto non gli pronosticavano i sondaggi. 58.206.354 voti, pari al 49,1. Quattro o cinque punti in più. È possibile che Bolsonaro abbia una maggior capacità di recuperare gli incerti all'ultimo minuto, oppure che chi viene intervistato abbia timore di dire di votare per lui. E così, come nel primo turno, il presidente uscente al momento dello scrutinio è partito in testa. Aveva il 56,45 per cento dopo il 2,05 per cento dei voti scrutinati; il 51,43 dopo il 20 per cento; il 50,8 dopo il 36 per cento; il 50,92 al 50,26 per cento; il 50,2 dopo il 58 per cento. Solo dopo il 79 per cento Lula è passato in testa, man mano che arrivavano i voti del Nord-Est, per poi aumentare il suo vantaggio. Non di tantissimo.
Usando toni da Conte di Montecristo, “mi volevano seppellire vivo, ma oggi sono qui per governare questo paese in una situazione molto difficile”, Lula ha promesso: “A partire dal primo gennaio del 2023 governerò per 215 milioni di brasiliani, e non solo per quelli che mi hanno votato. Non ci sono due paesi. Siamo un Brasile, un popolo, una grande nazione”. Detto a San Paolo, dove i suoi sostenitori hanno fatto una grande festa, ma dove al ballottaggio per governatore Tarcísio Gomes de Freitas, che molti considerano un possibile delfino di Bolsonaro, ha umiliato Fernando Haddad, che era stato il candidato del Pt sconfitto al ballottaggio presidenziale nel 2018. 55,79 contro 43,65 per cento. Parliamo di uno stato che, con i suoi 34,6 milioni di votanti, è non solo il più ricco, ma anche il maggior collegio elettorale del paese.
La verità è, appunto, che il Brasile è diviso in due, con il sud e il centro che si sono schierati con Bolsonaro, mentre il nord con Lula. Bolsonaro ha preso oltre il 70 per cento in Acre, Rondonia e Roraima; il 69 a Santa Catarina; il 65 nel Mato Grosso; il 62 a Paraná; il 56,6 a Rio de Janiero; il 56 nel Rio Grande do Sul, in passato fiore all'occhiello del Pt e culla del Forum di Porto Alegre; il 55 a San Paolo. Lula ha avuto il 77 per cento a Piauí; il 72 a Bahia; il 71 nel Maranhão; il 67 nel Pernambuco; il 66 a Paraiba, il 65 nel Rio Grande do Norte; il 59 a Alagoas; giusto un po' su del 50 a Amazonas y Minas Gerais, che sono appunto il tradizionale “termometro” del voto nazionale, un po' come l'Ohio negli Usa. Insomma, Bolsonaro ha vinto nella parte più ricca del paese, ma Lula si è aggiudicato con maggiore distacco quella più povera, i cui risultati nello scrutinio arrivano per ultimi.
Ci sono comunque 3.930.765 schede nulle e 1.769.678 bianche, su 2.139.645 voti di distacco. Trump scatenò Capitol Hill per molto meno, e nel corso della campagna elettorale il bolsonarismo si era sempre più trumpizzato, con slogan espliciti inneggianti alla rivolta armata e al golpe in caso di pretesi brogli elettorali; la gag finale di una deputata bolsonarista ripresa mentre minacciava un giornalista con una pistola; un dirigente del Pt assassinato due giorni prima delle elezioni; il presidente del Tribunale Superiore Elettorale Alexandre de Moraes che sabato ha ordinato alla Polizia Federale del Traffico di sospendere una ondata di controlli su veicoli accusata di voler ostacolare l'accesso alle urne di elettori di Lula. Peraltro neanche Lula ci è andato leggero col linguaggio, rispondendo alle accuse di “ubriacone” e “traditore della patria” con insulti a Bolsonaro di “pedofilo” e “cannibale”. Insomma, la stampa internazionale dava per fortissimo un rischio di golpe in caso di vittoria di Lula, e membri democratici del Congresso Usa avevano fatto un appello per evitarlo.
In concreto, però, Bolsonaro a differenza di Trump non solo non ha denunciato brogli, ma è proprio stato zitto. Né da lui né dai suoi figli, tutti assidui frequentatori dei social, è arrivato finora alcun commento, e per ora sembra non voler ricevere neanche i suoi alleati più prossimi, neanche i suoi ministri. L'unico che sembra essere riuscito a parlargli è de Moraes, con cui negli ultimi tempi si era scontrato a ripetizione, ma che ora garantisce per lui. “Non c'è nessun rischio. In quanto a possibili crepe, sono parte del gioco democratico”. De Moraes dice di stare sicuro anche perché presidente del Senato è Rodrigo Pacheco, da lui elogiato come inflessibile “difensore della democrazia e dello stato di diritto”.
Pacheco è però esponente dell'Unione: partito di destra alleato di Bolsonaro, anche se al primo turno ha provato a presentare un candidato per conto suo. Comunque, è Bolsonaro che ha favorito la sua elezione. Anche il presidente della Camera Arthur Lira riconosce la vittoria di Lula, ma è uomo di Bolsonaro. In una America Latina dove a tutte le elezioni stanno vincendo i partiti di opposizione Bolsonaro conferma il trend alle presidenziali, ma la sua coalizione è in clamorosa controtendenza con la vittoria al Congresso e per i governatori. Alla Camera su 513 deputati ce ne sono 190 dell'alleanza di Bolsonaro, 122 di quella di Lula e il resto formazioni in mezzo il cui voto dovrà essere contrattato volta per volta. Al Senato su 81 seggi ci sono 23 bolsonaristi, 12 lulisti e gli altri in mezzo. Governare sarà difficilissimo, e molti analisti prevedono che tentativi di impeachment potrebbero iniziare da subito.
Dalle piazze ai palazzi