Elezioni in Brasile
Bolsonaro rompe il silenzio e lascia a Lula un Brasile irriconoscibile
Il vecchio-nuovo presidente non riconosce più il suo paese, ma almeno conosce bene il metodo del compromesso
Mentre Jair Bolsonaro, ieri sera, riconosceva di fatto la sconfitta dando inizio alla transizione parlando da Palácio do Planalto, il palazzo presidenziale di Brasília, nel paese c’erano 267 sit-in di protesta. Lula sa che i tempi sono cambiati (il giorno in cui si era svegliato a Planalto l’ultima volta, il 1 gennaio 2011, il suo consenso personale era ancora dell’80 per cento) e pensa a un governo “inclusivo” rispetto alle istanze della destra moderata che, in materia economica, non sono poi così diverse da quelle dei sostenitori del presidente uscente. Per il ministero dell’Economia si parla di Henrique Meirelles, ex presidente della Banca centrale e già a capo dello stesso dicastero che potrebbe essergli riaffidato tra due mesi, quando avverrà la transizione. Meirelles piace ai mercati ed è stato un esponente di praticamente tutti i partiti brasiliani di centrodestra negli ultimi vent’anni, in questo momento è iscritto al Psd ed è il segretario alle Finanze dello stato di San Paolo, il più ricco. Meirelles poi ha passato la maggior parte della propria vita da adulto non in Brasile, ma a Boston: è stato per trent’anni un dirigente della holding finanziaria americana BankBoston e ne è diventato il presidente dopo la fusione con un altro colosso statunitense, fa parte dei consigli universitari dell’Mit e dell’Harvard School of Government, è consigliere della Washington University e siede nel consiglio di amministrazione del mercato finanziario assicurativo Lloyd's di Londra. E’ un amico di Bill Clinton e, soprattutto, di Lula, che lo ha voluto presidente della Banca centrale per tutta la durata dei suoi due mandati, dal 2003 al 2011. Ma Meirelles ha accettato incarichi pubblici in Brasile solo dopo aver raggiunto l’età della pensione, perché in Massachusetts guadagnava cinque volte quello che avrebbe guadagnato dopo.
Il Brasile non assomiglia più a quello degli anni duemila in cui il Partito dei lavoratori e soprattutto il suo leader erano enormemente potenti e amati, ma il “metodo Lula” può consentire al vecchio-nuovo presidente di navigare anche in un contesto molto meno confortevole di quello che aveva lasciato. E’ un metodo che, da sempre, prevede il pragmatismo economico e l’astuzia politica, la capacità di andare d’accordo con le opposizioni, di farci patti nobili e compromessi al ribasso, di sedurle o tollerare – entro certi limiti – anche i loro capricci e tradimenti. Che il Brasile di oggi non assomiglia a quello di undici anni fa Lula lo sa meglio di chiunque altro e domenica – subito dopo lo spoglio dell’ultima scheda – ha detto prima di tutto che c’è bisogno di unità, che lui sarà il presidente di 215 milioni di brasiliani e non di quelli che lo hanno votato, e poi la cosa politicamente più importante: “Questa non è una mia vittoria o una vittoria del Partito dei lavoratori, né degli altri partiti che mi hanno sostenuto in questa campagna: è la vittoria di un immenso movimento democratico che si è formato al di sopra dei partiti politici, degli interessi e delle ideologie”. Anche tra chi ha votato per lui, molti non sono dei nostalgici e sono ormai infastiditi dalla sua figura ingombrante e dalle macchie della sua storia recente, ma lo hanno preferito al presidente più negazionista del mondo rispetto alla pandemia, che ha sempre dato a Lula del “comunista” salvo poi imitare nei minimi dettagli un vecchio provvedimento del Partito dei lavoratori, una specie di reddito di cittadinanza, per racimolare voti a ridosso delle elezioni.
Il Brasile degli anni duemila, quello di Lula, con le sue contraddizioni e i suoi scandali, viveva anni fortunati in cui venti milioni di persone sono uscite dalla povertà, le agenzie di rating premiavano i provvedimenti finanziari nazionali, la spesa pubblica era sostenuta dalla crescita che derivava soprattutto dalla decisione di sfruttare a pieno le risorse petrolifere nazionali e dall’astuzia di posizionare il Brasile come produttore di carne e di soia della Cina quando la Cina cresceva a velocità supersonica. Gli stessi anni in cui il “gigante sudamericano” era riuscito a sedersi tra i grandi del mondo: un posto che aveva sempre pensato di meritare, che non era mai riuscito a ottenere e che ha poi perso molto rapidamente. Quegli anni sono finiti bruscamente ormai quasi un decennio fa e ciò che oggi si chiede al prossimo governo è di svolgere al meglio un compito assai più mediocre: tenere insieme i cocci ed evitare disastri, rinunciare alle proprie proposte più ambiziose o connotate politicamente. La transizione forse non sarà violenta, certo non sarà semplice.