la mela in cina
Dopo l'esodo dalla fabbrica di Zhengzhou, Apple conferma l'opzione India
Il parco industriale nella città cinese è quasi in ginocchio a causa del lockdown imposto da Pechino. I motivi per restare ancorati al Dragone, in una situazione minata anche dagli eventi geopolitici del 2022, cominciano a scarseggiare. Si pensa a centri di produzione alternativi
Lavoratori che camminano lungo le autostrade della provincia di Henan, stringendo sacchetti di plastica pieni di effetti personali: è l’esodo di massa partito negli ultimi due giorni dalla fabbrica di iPhone del Foxconn Technology Group a Zhengzhou, Cina centrale.
Qui viene prodotta circa la metà degli iPhone della Apple in un parco industriale che dà lavoro a circa 200 mila persone. Ma da quando le autorità di Pechino hanno imposto un lockdown fino al 9 novembre per cercare di contenere un focolaio di Covid è esplosa una specie di rivolta. Timorosi di contrarre la malattia e stufi di essere tenuti nel campus, in condizioni di crescente disagio, centinaia di dipendenti si sono alzati e se ne sono andati. Così, il colosso dell’elettronica taiwanese Foxconn, potrebbe dover mettere in conto una drastica riduzione delle forniture. Insomma, “l’hiPhone City”, com’è stato battezzato il parco industriale Zhengzhou, se non è in ginocchio ci manca poco e questo darà alla Apple una ragione in più per attuare la sua strategia di diversificazione geografica che ha già individuato l’India come un’alternativa alla Cina. Di recente, la Big tech fondata da Steve Jobs ha annunciato che l’hiPhone 14 sarà prodotto in India e che ha intenzione di realizzare il 25 per cento dei suoi dispositivi fuori dalla Cina entro il 2025. Questo rappresenta forse il contraccolpo più duro della politica zero Covid di Xi Jinping, il quale, fresco del terzo mandato alla guida del partito comunista, sembra quasi noncurante del rischio che sta correndo la Cina di perdere il predominio come polo di riferimento della manifattura globale. Secondo una ricerca di Jupiter Global Emerging Markets, tale ruolo “potrebbe volgere al termine, visti i cambiamenti politici ed economici che stanno spostando l’ago della bilancia verso l’India”.
In effetti, mentre la Cina si ripiega verso l’interno, il governo di Narendra Modi ha colto al volo l’opportunità per annunciare la campagna “Make in India” con l’obiettivo di attrarre investimenti anche dall’estero. I 10 miliardi di dollari di incentivi per la produzione di chip, ad esempio, hanno attirato l’interesse di aziende da Singapore a Israele. Così per gli investitori i vantaggi geopolitici dell’India stanno diventando sempre più importanti e tanto più a lungo dureranno i lockdown cinesi tanto più denaro sarà investito in India. Tornando ad Apple, la politica zero Covid, di cui mentre si parla di un alleggerimento viene applicata in modo drastico a un distretto industriale nevralgico come quello di Zhengzhou, sta uccidendo quello che viene definito “l’hiPhone advantage” della casa di Cupertino. I motivi per restare ancorati alla Cina cominciano a scarseggiare se nel mondo emergono centri di produzione alternativi. “Per certi versi – spiega Jupiter nella sua analisi - il movimento di capitali e investimenti dalla Cina all’India è sembrato inevitabile. Dall’era Trump, il nazionalismo cinese, quello americano e le relative intimidazioni sono diventati più forti.
Questo è stato aggravato anche dai principali eventi geopolitici del 2022: la guerra in Ucraina e le esercitazioni militari cinesi intorno a Taiwan. L’India, in quanto democrazia, ha accresciuto la sua attrattiva rispetto alla crescente posizione autoritaria del suo vicino orientale, con il quale ha già rapporti tesi a causa delle dispute di confine. Inoltre, la base di conoscenze e i vantaggi demografici dell’India la pongono come principale alternativa alla Cina”. Proprio a causa delle tensioni geopolitiche, per le aziende occidentali non è mai stata così importante la creazione di catene di approvvigionamento alternative, soprattutto di paesi “amici”. Nello stesso momento il governo indiano ha dichiarato pubblicamente il suo desiderio di accrescere la filiera produttiva, offrendo incentivi ai produttori per la creazione di stabilimenti. Non è la prima volta che si assiste a un cambiamento delle basi produttive globali. E’ già successo in passato, ricorda Jupiter, “in primo luogo con il Giappone, quando è diventato una potenza manifatturiera nella seconda metà del XX secolo, e più recentemente con l’ascesa delle tigri asiatiche Singapore, Taiwan e Corea. Nessuno, però, è stato così centrale per la produzione globale come la Cina”. In conclusione, la transizione verso l’India potrebbe portare a uno scenario in cui il mondo manterrà per un certo periodo due hub produttivi chiave: l’India e la Cina. Ma l’attuale economia globalizzata impone che alla fine vinca il polo produttivo più economico, in questo caso l’India.