La libertà dentro una mensa, in Iran
Nelle università iraniane gli studenti che protestano sono impermeabili all’ideologia islamista così come agli slogan anticapitalisti. La forza di sedersi maschi e femmine vicini a pranzo, contro le barriere
Ieri mattina l’ayatollah Ali Khamenei è comparso davanti a un gruppo selezionato di studenti e ha sputato veleno contro l’America e le sue menzogne. Lo ha fatto con il tono di sempre, come se il mondo fosse ancora quello di prima, un mondo senza graffiti che lo insolentiscono sui cassonetti, senza madri che lo maledicono sulle tombe dei figli, senza ragazzine di terza media che si fotografano mentre alzano il dito medio verso la sua effigie, senza pasdaran costretti a lanciare bombe acustiche per soffocare il grido “Morte a Khamenei” che da sette settimane scandisce le notti del quartiere di Ekbatan. Ma la verità è che in Iran il mondo non è più lo stesso, ogni mattino porta con sé l’annuncio del funerale di un nuovo ragazzo o la celebrazione di un ennesimo quarantesimo giorno, l’aria è satura di collera, di orgoglio e di speranza, ogni parola ha un peso diverso, persino quelle pronunciate milione di volte come martire o eroe, nulla può funzionare allo stesso modo, nemmeno la propaganda. Così quando la Guida Suprema inveisce contro il grande satana un momento e poi posa come l’ayatollah della porta accanto quello dopo, chinandosi a baciare un bambino a favor di telecamera, la distanza tra la realtà di un leader che non muove un sopracciglio davanti all’uccisione di ragazze di 15 anni, e la contro-narrazione del padre nobile vittima dei soliti complotti occidentali è troppo grande, troppo smaccata, per non risultare grottesca, e in un Iran sempre attento a riconoscere i simboli nella trama degli eventi, la propaganda s’inabissa ulteriormente non appena il bambino chiamato a ingentilire l’immagine austera di Khamenei si ritrae per evitare di baciarlo.
A dispetto delle minacce di Khamenei e dello scetticismo degli analisti, la sfida tra la Repubblica islamica e gli iraniani si rinnova ogni giorno. “Will Iran’s women win?”, domandava la settimana scorsa in copertina l’Economist, perché nonostante la censura il nuovo Iran si affaccia al mondo e canta e balla e muore per farsi ascoltare, ed è un Iran così bello, un Iran così struggente da costringere il regime agli straordinari per farlo tacere. “Oggi deve essere l’ultimo giorno dei disordini. Non venite in piazza. Nessuno vi lascerà ribellare in questa terra! Non lasciatevi ingannare dai nemici. Le proteste sono frutto dei complotti di Stati Uniti, Gran Bretagna, regime sionista e regime marcio dell’Arabia saudita”, ha inveito sabato contro i manifestanti il comandante pasdaran Hossein Salami. Ma le ragazze hanno seguitato a uscire per strada a capo scoperto, a far scivolare bigliettini nascosti nel palmo nelle mani di altre coetanee: “Grazie di aver reso la città più bella con i tuoi capelli”, era scritto in questi messaggi e nel frattempo gli studenti hanno continuato a intonare lo slogan: “Donna, vita, libertà” e le studentesse a sgolarsi rispondendo: “Uomo, paese, prosperità”. Perché se possibile, dopo le minacce, nelle università la protesta si è fatta ancora più rumorosa. “Noi non lasceremo l’Iran, noi ci riprenderemo l’Iran”, hanno urlato i ragazzi dell’università Amir Kabir di Teheran. “Questo è il nostro messaggio: l’obiettivo è tutto il sistema”.
A Sandaj le studentesse dell’ateneo di Yazdanpanah sono rimaste intrappolate dentro l’edificio circondato dalle forze di sicurezza. Nell’università Al Zahra di Teheran si sono verificati scontri tra le ragazze e le forze di sicurezza. “Basiji pasdaran, voi siete il nostro Daesh (Stato islamico)”, ripetevano le ragazze tra le urla e gli spintoni. Ma per quanto possa essere intenso il giorno, le notti sono ancora più scure. “Per favore, aiutateci. Sono proiettili veri. Qui ci stanno ammazzando! Il mondo ci deve ascoltare”, si sente nell’audio registrato da uno studente dell’università di Ahvaz, aggredito nel cuore della notte. Poiché è di notte che partono gli assalti ai dormitori. Prima salta il wi-fi e la corrente, poi arrivano le pistole contro le tempie e le manganellate a chi cerca di liberare se stesso o un compagno. I video caricati dagli studenti mostrano agenti in borghese che percuotono ragazzi e li trascinano via e altri agenti che stazionano davanti alle uscite per bloccare le vie di fuga. Secondo l’ordinamento della Repubblica islamica, le forze di sicurezza non sono autorizzate a entrare nelle università e ad arrestare gli studenti, ed è per questo che i pretoriani di Khamenei entrano in borghese, non sempre, ma spesso grazie alla connivenza dei guardiani degli atenei. “Se mancherà anche solo un capello dalla testa di uno di noi, altri cento si alzeranno”, gridano migliaia di ragazzi la mattina dopo questi sequestri. Perché sanno che le università sono il cuore pulsante della rivolta e che se il cuore smette di battere, il nuovo Iran si accascerà sotto i colpi dei suoi censori. Secondo i dati raccolti dall’organizzazione Human Rights Activists, in Iran le forze di sicurezza hanno arrestato almeno 14 mila persone e ne hanno uccise almeno 287. L’organizzazione ha specificato che, delle 121 persone di cui era stata in grado di verificare le generalità, l’età media era di 23 anni e 39 persone risultavano sotto i 18 anni.
“Per come la vedo, o riesco a fuggire e a ricostruirmi una vita all’estero, ma in questo caso dovrei abbandonare i miei genitori e i miei amici, o resto qui a lottare, magari a morire, un’altra scelta non esiste, non ci è stata concessa – racconta Massoud, nome di fantasia, al Foglio – A questo punto si tratta della marcia inesorabile della storia, io sento i passi, i passi della storia che mi vibrano sotto lo sterno e non ho intenzione di fermarmi”. Per i ragazzi nelle università è più facile incontrarsi, scambiarsi idee e impressioni, stabilire piani d’azione. “Ogni giorno, ogni città ha le sue manifestazioni dentro le università – dice Massoud – L’ambiente è familiare, non dovremmo perché tutti ci spiano, però ci sentiamo più sicuri, o forse la sicurezza è solo data dal fatto di stare tutti insieme. A volte i professori si uniscono a noi, a volte i bassiji restano in disparte, altre la tensione aumenta e si finisce ad alzare le mani. E ogni volta ricordiamo a quelli che stanno zitti che i prossimi potrebbero essere loro. Maschi, femmine, siamo tutti Mahsa Amini”.
Le proteste hanno colori diversi. Si sono visti sit-in silenziosi sotto le palme, come quelli degli studenti della facoltà di medicina di Shiraz che hanno innalzato cartelli con su scritto: “Lo sciopero fino alla libertà”, ma anche flash mob, installazioni e balli sfrenati di ragazzi e ragazze che hanno intrecciato le dita ballando sui tavoli come a Sanandaj. Ma le contestazioni esplodono anche all’improvviso come reazione a una presenza sgradita. E’ accaduto per esempio all’università Khaje-Nasir al Din Toosi di Teheran, dove un emissario del governo è stato subissato dalle urla di studenti che scandivano: “Non vogliamo ospitare degli assassini”. Altre volte manifestare vuol dire riappropriarsi dello spazio colonizzato dal regime, oltrepassare e poi cancellare le sue linee rosse. Il 23 ottobre all’Università Sharif di Teheran studenti e studentesse si sono seduti insieme a mensa. Il giorno seguente, per evitare che la sfida si trasformasse in un fatto compiuto, i bassiji hanno barricato l’area per impedire a maschi e femmine di tornare a mangiare l’uno accanto all’altra. Ma gli studenti non si sono lasciati intimidire, hanno travolto le barriere e sono entrati nella sala battendo le mani e cantando la canzone “Il mio compagno di scuola” (Yaar-e Dabestani-ye Man), una delle canzoni più care al movimento studentesco iraniano. Una settimana più tardi gli studenti dell’università Hormozgan di Bandar Abbas hanno divelto la parete che separava la sezione maschile da quella femminile della loro sala da pranzo e oggi la liberazione delle mense seguita a dilagare in tutto il paese.
“Sono i momenti che ci fanno andare avanti, i momenti in cui vediamo a cosa potrebbe assomigliare il futuro”, sottolinea Massoud. Ma tra la notte, il giorno e il sogno del futuro, resta la consapevolezza dell’orrore a cui si va incontro. “Morire per la libertà – sospira Massoud – Sì sono disposto a morire per questo, non per una scatoletta di tonno avariata però”. Ride quando lo dice, perché per il regime i ragazzi morti in queste sette settimane sono tutti vittime di ictus o infarti fulminanti, suicidi che si lanciano dai tetti, o appunto vittime di scatolette di tonno avariate.
Ed è per questo motivo che Amirhossein Rezapour, uno studente dell’università di Rasht guarda dritto in camera e parla. Indossa una camicia a scacchi bianca e nera, ha l’aria stanca, la voce pacata. Dice: “Se mi state vedendo vuol dire che sono scomparso e che questo video è stato diffuso da una persona di cui mi fido… Sono stato convocato dal ministero dell’Intelligence… Quello che mi sta succedendo è già accaduto a molti altri studenti… Per favore siate la nostra voce”. Nessuno sa ancora dove sia finito. L’unica certezza è che poche ore dopo aver registrato questo messaggio è stato arrestato.
Sono ragazzi coraggiosi, ma anche pragmatici, i Massoud d’Iran. Nativi digitali, impermeabili tanto all’ideologia islamista, quanto ai vecchi slogan anti imperialisti, sono ragazzi diversissimi da quelli che negli anni Settanta sognavano un mondo anti aristocratico, un mondo attento agli ultimi, salvo poi farsi tappare la bocca da Ruhollah Khomeini. I ragazzi della generazione Z giurano di non essere disposti a farsi dettare l’agenda da nessuno.
“Non è un videogioco – ripete Massoud con la voce roca – Non è facile tornare per strada quando ti strappano il tuo migliore amico dalle braccia, però lo facciamo. Lo facciamo perché siamo già uomini e donne libere. Ogni settimana dicono che sarà l’ultima, ma noi siamo ancora qui e resteremo. La vita è un po’ come nella poesia di Hamid Mossadeq (1940-1998, ndr)”, dice Massoud. “Se io mi alzo e tu ti alzi, tutti si alzeranno, se io mi siedo e tu ti siedi, chi si alzerà?”. Bisogna trovare la forza di seguitare ad alzarsi, dice Massoud. “Io questa forza ce l’ho”.