l'intervista
Chiacchiere su un terzo partito in America, dove meno te l'aspetti
“Credo che negli Stati Uniti ci sia il bisogno assoluto di un polo centrista”, dice al Foglio William Galston, politologo della Brookings Institution. Secondo un sondaggio "il 42 per cento degli intervistati sarebbe disposto a votare un terzo candidato tra i due maggiori partiti"
New York. “Credo che negli Stati Uniti ci sia il bisogno assoluto di un terzo partito”, dice al Foglio William Galston, politologo della Brookings Institution che ha partecipato a sei campagne elettorali, ha lavorato per l’Amministrazione Clinton e tiene una rubrica settimanale sul Wall Street Journal in cui parla dei temi che studia da sempre: pluralismo, populismo, tenuta delle democrazia e delle società democratiche. Galston cita una ricerca della Brookings che mostra che “il 42 per cento degli intervistati sarebbe disposto a votare un candidato centrista tra i due maggiori partiti, qualora se ne presentasse l’opportunità”. La domanda c’è, ma non c’è l’offerta: “Nonostante questa forte richiesta e questa evidente necessità, sono piuttosto scettico rispetto al fatto che un cambiamento del genere possa avvenire in tempi brevi. L’impianto bipartitico degli Stati Uniti è forte, radicato. E se ci fermiamo un attimo a pensare, ci rendiamo facilmente conto del fatto che l’ultima reale novità in questo quadro bipartitico risale al 1854, a quando cioè i repubblicani disarcionarono i Whigh. Dopo di allora niente, se non qualche intemerata isolata e senza ricadute concrete, come quella di Ross Perot negli anni Novanta”.
L’ultimo articolo di Galston sul Wall Street Journal descrive proprio l’aspirazione degli elettori americani di poter scegliere tra candidati moderati. Cosa può far pensare che questa volta, alle elezioni di metà mandato della settimana prossima (si vota l’8 novembre), le cose vadano diversamente? “In teoria nulla – dice Galston – In pratica ci sono alcuni elementi da considerare e che potremmo riassumere come ‘il controllo delle minoranze’. Sia il Partito repubblicano sia quello democratico, che pure è guidato da un moderato come Joe Biden, sono guidati dalle loro ali estreme, dalle minoranze rumorose dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. I trumpiani non sono necessariamente la parte numericamente più corposa del partito, ma sono senza dubbio quella la cui presenza è più evidente e fragorosa. Allo stesso modo, tra i democratici, Joe Biden è percepito come un moderato, ma il suo governo viene percepito come troppo spostato a sinistra, troppo ben disposto verso le istanze di sinistra, alla Bernie Sanders, per intenderci”. Pure se il bipolarismo americano sembra essersi rotto, l’inerzia e l’abitudine culturale potrebbero però salvargli la pelle anche questa volta. “Gli americani, sono così abituati a pensare al sistema a due partiti da considerarlo naturale, da darlo per scontato. Difficilmente le cose cambieranno a meno che non si verifichino precise condizioni”.
La prima condizione – nelle ipotesi di Galston – è che nel 2024 ci sia una riedizione della sfida Biden-Trump del 2020, due candidati che, seppure per ragioni diverse, sono in affanno di popolarità. La seconda condizione è che Trump si candidi alle primarie repubblicane e le vinca. “Questo – dice Galsto – potrebbe dare la spinta definitiva ai repubblicani che non si riconoscono in Trump a lasciare il partito. Qualcosa in tal senso si muove dalle parti della deputata conservatrice Liz Cheney, che sembra molto determinata: sarebbe sufficiente che lei gli soffiasse anche soltanto un 5 per cento di voti per sbarrargli le porte dei collegi elettorali”. Certo, l’esperimento è un po’ pericoloso: nulla vieta che quello stesso 5 per cento Cheney lo sottragga a Biden invece che a Trump.
C’è un’altra ipotesi, remota ma possibile, ossia che nasca sì un terzo partito, ma non al centro, quanto all’estrema destra. “Per il momento Donald Trump non ha alcun bisogno di farsi un partito suo, dal momento che governa già quello repubblicano. Ma qualcosa potrebbe cambiare se Trump dovesse perdere le primarie contro Ron DeSantis, attuale governatore della Florida. Trump non è tipo da lavorare per un partito di cui non è il leader. E in quel caso, potrebbe portare altrove i sostenitori del suo movimento Maga, Make America Great Again, spaccando il Partito repubblicano e aprendo uno scenario del tutto nuovo”. Il problema a questo punto non è più divertirsi con il pallottoliere per cercare di capire chi può conquistare cosa, ma provare a comprendere chi possa rispondere alle domande degli americani. Il partito con il quale lo farà, a questo punto, è soltanto una faccenda di scenografia.
L'editoriale del direttore