Musk e Twitter, Tesla in Cina, Facebook e il trumpismo. Geopolitica social
Il gioco globale delle piattaforme. Fino a qualche anno fa i social network erano delle nazioni, oggi potrebbero diventare agenti di contese internazionali
Ci sono varie ragioni per cui l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk è eccezionale. Partiamo da quelle positive: Musk potrebbe cambiare Twitter per il meglio. Il social esiste da 18 anni, è stantìo e ormai si è trasformato in una ridotta di giornalisti e politici che gli consentono di mantenere una certa rilevanza, ma dentro a bolle sempre più piccole, e senza veri ritorni economici. Nessuno che non abbia un interesse nella politica, nel giornalismo, o in altre piccole nicchie che per qualche motivo sono sopravvissute dentro a Twitter ha alcuna ragione per usare il social, e Musk potrebbe essere la persona giusta per cambiare questo stato di cose, trovando nuovi modi per invogliare gli utenti a usarlo, attirando nuove personalità e nuovi gruppi di persone, ideando nuovi metodi per monetizzare l’attenzione che il social network riceve. Musk dopo tutto è un genio, almeno in certi campi, e potrebbe dimostrare di esserlo anche in questo.
Passiamo ora alle ragioni negative: Musk potrebbe facilmente distruggere Twitter – e i modi in cui può distruggerlo sono molti di più di quelli con cui può salvarlo. Per esempio, potrebbe trasformare Twitter in uno strumento di propaganda e disinformazione, cosa a cui apparentemente sta già lavorando: da quando ha acquistato l’azienda, ha fatto interrompere buona parte dei processi di moderazione e revisione dei contenuti. Ha inoltre deciso di mettere a pagamento le “spunte blu”, cioè quei simboli che attestano che certe personalità pubbliche (capi di stato, politici, giornalisti, sportivi professionisti, attivisti) sono davvero loro, e non degli impostori. E’ comprensibile che Musk voglia trovare un modo per fare qualche soldo con Twitter, che storicamente ha sempre fatto fatica a essere profittevole, ma mettere a pagamento l’unico sistema di verifica dell’identità presente sul social network rischia di creare enormi problemi di affidabilità, fake news e spam: non tutti i giornalisti o gli attivisti, per esempio, sono disposti a pagare un abbonamento mensile (che potrebbe arrivare anche a 20 dollari al mese) per mantenere la loro spunta blu, e a quel punto diventerà più facile per impersonatori e truffatori diffondere disinformazione e bufale.
Un’altra cosa disastrosa che Elon Musk potrebbe fare – e che quasi certamente farà – è riportare su Twitter Donald Trump. Sembra controintuitivo: cosa potrebbe fare una persona sola di così terribile su Twitter? Anche considerando che la sua esclusione dalla piattaforma, fin dall’inizio, fu una decisione unilaterale della dirigenza di Twitter e tutto sommato poco liberale, almeno in senso classico. Ma Trump, lo si è visto, ha una peculiare capacità di creare disinformazione, attenzione, scandalo e polarizzazione, e Twitter è la piattaforma su cui ha sviluppato e perfezionato la sua arte. Il suo ritorno forse non distruggerà Twitter, ma potrebbe fare male alla democrazia americana. Seguendo questi criteri, Musk potrebbe trasformare Twitter in un luogo di disinformazione e fake news incontrollate. Lui stesso, perfino dopo essere diventato il proprietario del social, ne ha diffuse alcune. Per esempio, rispondendo a un tweet di Hillary Clinton ha pubblicato un link a un noto sito di bufale che cercava di smentire – con teorie allucinanti – la notizia secondo cui il marito di Nancy Pelosi sarebbe stato aggredito da un esponente dell’estrema destra. Musk ha poi cancellato il tweet, ma insomma. Questo tipo di disinformazione e fake news può funzionare con un certo pubblico, ma non con la stragrande maggioranza degli utenti, che potrebbero decidere di trovarsi un altro social.
Su Twitter, Trump ha sviluppato la sua arte. Il suo ritorno forse non distruggerà la piattaforma, ma potrebbe fare male alla democrazia
Un’altra ipotesi apparentemente banale, ma in realtà piuttosto probabile, è che Musk si annoierà presto dell’impresa tutto sommato tediosa di raddrizzare un social network mezzo morto, con tutti i doveri e le incombenze che questo comporta, e che abbandonerà Twitter a se stesso, come ha fatto con altri suoi progetti. C’è infine un altro aspetto che potrebbe mettere nei guai il nuovo Twitter di Elon Musk. Per semplificarlo, possiamo usare una parola usurata e abusata, e quasi sempre impiegata in maniera erronea. Lo faremo anche in questo caso, ma aiuta a capire: geopolitica. Il punto è che Twitter, sotto la proprietà di Elon Musk, potrebbe avere seri problemi di influenza da parte di alcune potenze internazionali. Anzitutto la Cina. Elon Musk, oltre che proprietario di Twitter, lo è anche di Tesla e di SpaceX, e soprattutto Tesla ha grandissimi interessi in Cina. Elon Musk ha da poco aperto un’enorme e avveniristica fabbrica di automobili elettriche Tesla a Shanghai, e ha annunciato con entusiasmo l’intenzione di aprirne una seconda a breve. Il mercato cinese, inoltre, è uno dei più importanti in assoluto per Tesla, che dipende dalle vendite di auto elettriche alla crescente classe media cinese.
Infine, la Cina è un esportatore di materie prime che sono essenziali per la fabbricazione delle automobili Tesla, soprattutto delle batterie. Ma la Cina, ovviamente, è una dittatura autoritaria, che è piuttosto permalosa quando si tratta di critiche al suo regime e ha già ampiamente dimostrato di essere disposta a usare il ricatto economico per raggiungere i propri obiettivi in politica estera. Mettiamo allora che un dissidente uiguro (l’etnia musulmana perseguitata dal regime cinese nell’est del paese) diventi particolarmente virale su Twitter con i suoi commenti contro il presidente Xi Jinping. O che un giornalista sveli su Twitter alcuni scandali imbarazzanti per il regime. A quel punto – e per puro caso, ovviamente – il regime cinese potrebbe decidere di revocare a Tesla un’autorizzazione per tenere aperta la sua fabbrica di Shanghai, e lanciare così un chiarissimo messaggio a Elon Musk. Cosa deciderà di fare Musk a quel punto? Accetterà che la sua fabbrica sia chiusa rischiando perdite di miliardi di dollari in nome della libertà di espressione e dell’integrità di un social network che praticamente non produce utili? Difficile.
Mettiamo che un dissidente uiguro diventi virale su Twitter. Cosa farebbe Musk se Pechino gli revocasse un’autorizzazione per Tesla?
Poi c’è l’Arabia Saudita. Per comprarsi Twitter, Musk ha chiesto soldi in prestito a un sacco di gente. E se c’è qualcuno sempre disposto a buttare abnormi quantità di denaro in imprese di business apparentemente insensate, quelli sono i sauditi. Il principe Al-Walid bin Talal, nipote del defunto re Abdullah, possedeva già azioni di Twitter prima dell’acquisizione, e con l’arrivo di Musk ha aumentato la sua quota. Attualmente, il principe saudita è il secondo più grosso azionista di Twitter, dopo Musk. La sua quota è relativamente piccola (il quattro per cento dell’azienda), ma comunque decisamente notevole. Anche imprenditori qatarioti hanno quote minori dentro a Twitter. Ma forse la più grossa preoccupazione politica per Twitter è Musk stesso, che è del tutto imprevedibile e ha dimostrato spesso di sostenere posizioni non ortodosse in politica estera: soltanto di recente ha fatto dichiarazioni favorevoli al regime cinese su Taiwan e favorevoli al regime russo sull’Ucraina.
Quello di Musk e Twitter è sotto molti punti di vista un caso limite, ma le preoccupazioni (politiche e geopolitiche) per i social network sono effettivamente un fenomeno importante. C’era stato un tempo, ancora pochi anni fa, in cui i social network viaggiavano ben al di sopra delle beghe quotidiane della politica. Fino a qualche anno fa, i social network erano delle nazioni. Ne avevano la dimensione – Facebook continua ad avere quasi tre miliardi di persone che si connettono almeno una volta al mese – e soprattutto ne avevano il potere. Erano tutti americani (Facebook, Instagram, Snapchat, Twitter, più tutti i vari social network che Google ha provato a lanciare nel corso degli anni, un fallimento dietro l’altro), ma non apparivano necessariamente come americani. Godevano, piuttosto, di quell’aura sovranazionale di cui godeva tutto internet, fino a cinque-dieci anni fa. Come internet, i social network erano infrastrutture, sistemi di comunicazione e di organizzazione, non attori politici né tantomeno parte attiva di contese internazionali.
Fino a 10 anni fa i social godevano di quell’aura sovranazionale di cui godeva tutto internet. Le cose sono cambiate dopo l’elezione di Trump
Ovviamente tutto è cambiato dopo l’elezione di Donald Trump nel 2016, quando si capì che Facebook era stato usato – e si era lasciato usare – per un’ampia campagna di disinformazione elettorale. Da lì in avanti è diventato chiaro che i social network non erano neutri e non galleggiavano in un iperuranio al di sopra delle sorti della politica. Gli anni successivi, soprattutto per Facebook, furono un inferno: fu accusato di aver involontariamente facilitato la diffusione di messaggi genocidiari da parte del regime militare in Myanmar, di aver favorito l’ascesa al potere della destra nazionalista in India e di varie altre nefandezze: in alcuni casi con fondamento, in altri meno. A un certo punto si capì che veicolare il proprio messaggio attraverso i social era a tal punto importante che tanto valeva farsene uno, di social: sono nati così, soprattutto negli Stati Uniti, il social dell’estrema destra Parler, e quello fondato da Trump dopo la sua cacciata da Twitter: Truth. Ma i social tradizionali americani, benché attaccati e vilipesi, coltivavano ancora quanto meno l’illusione di essere universali. Che da Washington a New Delhi a Johannesburg tutti avrebbero usato Facebook, Twitter e Instagram. Poi è arrivato TikTok.
Il caso TikTok: la sua cinesità ha fatto accorgere che Facebook, Instagram, Twitter e gli altri sono social network “americani”
L’ascesa di TikTok ha vari aspetti eccezionali, a partire dalla velocità con cui ha conquistato moltissimi utenti in tutto il mondo e messo finalmente in pericolo il quasi monopolio di Facebook e Instagram. Ma ovviamente la caratteristica più notevole al momento è che TikTok è un social network di proprietà di un’azienda cinese, che ha legami più o meno difficili da decifrare – ma sempre negati con decisione – con il regime del Partito comunista. Il successo di TikTok in occidente è coinciso – forse non a caso – con un progressivo peggioramento dei rapporti con la Cina, e questo ha comportato una situazione paradossale: la Cina e l’occidente hanno cominciato a guardarsi con sempre maggiore sospetto proprio mentre un prodotto culturale cinese spopolava in Europa e negli Stati Uniti.
La cinesità di TikTok avrà grandi conseguenze sul lungo periodo, ma un primo effetto del suo successo è stato che, contestualmente, anche tutti gli altri social hanno perso la loro aura sovranazionale. Facebook, Instagram, Twitter e gli altri sono improvvisamente diventati social network “americani”, e questo ha avuto un effetto sia all’estero, dove questi prodotti hanno cominciato a essere visti con maggiore diffidenza (in Cina sono vietati da anni, ma le limitazioni sono aumentate esponenzialmente anche altrove) sia negli Stati Uniti, dove parte della classe dirigente ha cominciato a considerare i social network non più come un’infrastruttura, non più come uno strumento da usare per diffondere messaggi politici, ma come un potenziale alleato contro rivali geopolitici. Dopo la frammentazione dell’internet globale in tanti internet nazionali, non è dunque da escludere che assisteremo a un altro fenomeno, quello della frammentazione dei social per nazioni, o per regioni.