Perché in Georgia la campagna di Stacey Abrams, beniamina dei dem, non è andata benissimo

Paola Peduzzi

Nello stato politicamente tormentato c’è una sfida identica al 2018, e questo è già un problema: potrebbe essere uguale anche l'esito

Milano. In Georgia la corsa per diventare governatore è identica a quella del 2018 e secondo i sondaggi attuali potrebbe essere uguale anche l’esito: l’attuale governatore Brian Kemp batte la sfidante, Stacey Abrams. Se il nome di lei vi dice qualcosa e quello di lui no avete già capito qual è il problema della Abrams: è molto più popolare a livello nazionale, sui social, nel mondo hollywoodiano che in Georgia. Jacob Stern ha scritto un articolo impietoso sull’Atlantic in cui chiede: perché i democratici continuano ad affidarsi a “superstar losers”? Nell’elenco delle superstar che perdono sempre c’è anche Stacey Abrams (l’altro molto riconoscibile anche da noi è il texano Beto O’Rourke). 

 

L’analisi di Stern ha più a che fare con la scelta delle candidature e della classe dirigente americana di entrambi i partiti che con il successo o no della Abrams. Ma è vero che i repubblicani, e in particolare i trumpiani, sono stati molto accurati nelle loro selezioni e anche se  l’effetto finale è in parte mostruoso, con tutti quei candidati che davvero pensano di portare Joe Biden all’impeachment perché è un impostore e nel 2020 non ha vinto le elezioni, c’è stata una volontà precisa in questa direzione. Per i democratici invece sembra valere ancora l’idea che il sostegno del mondo dello spettacolo e i balletti – la Abrams ne ha fatti tantissimi, i suoi detrattori dicono spietati: cos’avrà mai così tanto da ballare? – possano davvero consegnare la vittoria in un’elezione locale e in uno stato politicamente tormentato com’è la Georgia. 

 

Dare della perdente alla Abrams è sì impietoso: ha perso nel 2018 con Kemp, ma ha fatto un lavoro di sensibilizzazione sul diritto al voto delle minoranze e sulla mobilitazione che è stato preziosissimo per la vittoria  di Joe Biden in questo stato  due anni fa. Da allora si parla del “playbook Abrams” per indicare la mobilitazione del voto afroamericano, che pare questo sì di successo a giudicare da quello che dice lei stessa: sembra che già in questi giorni di voto (le urne sono aperte da metà mese in Georgia) la comunità afroamericana si stia attivando. In più la Abrams avrebbe potuto continuare la sua carriera da deputata, che era già avviata, e invece ha scelto la strada impervia della sfida a un governatore repubblicano che è riuscito a maneggiare le crisi identitarie che scuotono il Partito repubblicano. Kemp infatti non è più ascrivibile al campo trumpiano, che è allo stesso tempo potente e fragile perché sono molti – il Wall Street Journal, che è un giornale conservatore che spesso ha flirtato con Trump, lo scrive tutti i giorni – a pensare che l’ex presidente possa essere un problema per il partito essendo tanto estremo.

 

Quindi da un lato c’è la Abrams, una beniamina del mondo democratico che finisce sulle copertine dei magazine difendendo diritti ed empowerment femminile (e nero), che era finita nella rosa delle possibili vicepresidenti di Biden,  e dall’altro un abile politico che, caso rarissimo, è riuscito a sopravvivere alla vendetta di Trump e ha cercato di spodestarlo alle primarie perché era  tra i funzionari repubblicani che non avevano assecondato la sua teoria cospiratoria dei brogli del 2020. Anzi proprio quel gran rifiuto ha trasformato Kemp nella percezione generale in un moderato, cosa che non è. Secondo gli analisti, ci sono altre ragioni contingenti che hanno penalizzato la Abrams e una è la corsa al Senato, dove il democratico Raphael Warnock difende il suo seggio contro Herschel Walker, ennesimo esempio di conservatore-teflon che ha fatto abortire più di una sua compagna ma vuole vietare l’aborto. Warnock ha raccolto soldi e attenzione, perché il Senato è molto in bilico e ogni seggio conta e perché qui si rischia, come nel 2020, di dover andare a un ballottaggio. Contingenze a parte, c’è chi dice che la Abrams è bravissima a fare eleggere gli uomini (a partire da Biden) ma poi quando tocca a lei gli uomini non l’aiutano. Qualcosa di vero potrebbe anche esserci, ma si tratta di fuoco amico: secondo le rilevazioni, sono gli uomini neri a non amarla poi così tanto.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi