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il saggio

La nostra guerra per la libertà

Leon Wieseltier

Da anni l’America esclude l’idea di dover lottare per la democrazia con le armi e si è dedicata alla prudenza nei confronti degli autocrati. Poi Putin ha invaso l’Ucraina e l’occidente ha dovuto ritrovare la forza di difendersi. E l’ha fatto  

L’evento più significativo di questo nostro tempo, mi auguro, sarà l’eroismo degli ucraini. Esistono uomini e donne che combattono e muoiono per difendere la democrazia liberale. Sembrava che una cosa così non fosse più possibile. Anzi, peggio: che non fosse più desiderabile. Qui in occidente Jeshurun si è fatto grasso e pingue e ha abbandonato il suo Dio. Stiamo attraversando anni di oltraggio alla democrazia liberale, e questo enorme disprezzo non s’è certo esaurito. Ci è stato detto che tutto ciò che c’è di orrendo nel nostro tempo è colpa del liberalismo, o peggio, del neoliberalismo, qualunque cosa esso sia. E’ stato incolpato di  tutta l’infelicità nel mondo; dunque, i predicatori di una nuova felicità si chiamano, vantandosi, post liberali, su tutti i lati dello spettro ideologico. Talvolta uno si deve stropicciare incredulo gli occhi di fronte all’intensità dell’odio per la democrazia liberale: questi stolti capiscono ciò che stanno dicendo? E poi Vladimir Putin, con perfetto candore riguardo alla propria mancanza di scrupoli e con una disumana assenza di vergogna, ha attaccato l’Ucraina. Le sue motivazioni rimangono oscure, come, del resto, tutto quel che riguarda questo piccolo uomo senz’anima; c’è chi attribuisce la sua guerra a considerazioni strategiche e chi le attribuisce a considerazioni mistiche. Tuttavia l’obiettivo di Putin difficilmente potrebbe essere più chiaro: impedire la diffusione della democrazia liberale, la quale negli anni recenti si è identificata con enfasi con l’evoluzione politica dell’Ucraina. Come i suoi predecessori sovietici, Putin teme sopra ogni cosa la condivisione di un proprio confine con la libertà, la quale come si sa possiede una particolare abilità nel superare i fili spinati.

 

Uno degli elementi più impressionanti del dibattito sulla guerra in Ucraina è la quasi assenza della sinistra e della destra anti liberale. La sinistra non sostiene la Russia, ovviamente; ma non sostiene nemmeno l’aiuto americano all’Ucraina, almeno non con l’entusiasmo che riserva ad altre cause. Al massimo gli ucraini si possono aspettare dalla sinistra radicale qualche pensiero e un paio di preghiere. Sospetto che quello che davvero li mandi in collera dell’invasione di Putin, ancor più dei suoi crimini di guerra, è che potrebbe condurre a un aumento del budget della difesa americana; o peggio, alla rinascita dell’“establishment della politica estera di Washington” e della “Washington élite”  – cioè chiunque abbia un punto di vista diverso dal loro. Questo è il populismo applicato alla sicurezza nazionale.

 

Negli ultimi decenni la sinistra radicale è rimasta  affascinata più dai martiri dell’islam che dai martiri del liberalismo. Certamente non vede di buon occhio il nuovo attivismo della politica estera americana, che è rimasta spiazzata dalla guerra in Ucraina. Secondo questi radicali, la politica estera americana non dovrebbe essere nulla più che una rievocazione degli errori della guerra in Iraq fino alla fine dei tempi. La vergognosa ritirata americana dall’Afghanistan è stata celebrata precisamente come un tributo alla nostra saggezza post Iraq. E adesso arriva Putin, e ci rovina tutto. Proprio quando pensavamo di essere fuori, ci trascina di nuovo dentro! (In effetti la successione degli eventi non era casuale: la nostra uscita dall’Afghanistan ha fornito il momento adatto per l’aggressione russa.) Nella curiosa logica dell’isolazionismo di sinistra, il pericolo dell’imperialismo di Putin è che rigeneri l’imperialismo americano, poiché tutti gli interventi all’estero dell’America sono per definizione imperialisti. Putin ha fatto il gioco di Lyndon B. Johnson (LBJ), se capite che intendo. Dunque ecco Frantz Fanon, cioè scusate Pankaj Mishra, che ci mette in guardia: “Le atrocità di Putin in Ucraina hanno ora regalato” al citato establishment “l’opportunità di far sembrare l’America di nuovo grande”. (No, non sembrare: essere). Ed ecco Glenn Greenwald che riporta solennemente l’osservazione di Noam Chomsky: “Fortunatamente” c’è “almeno uno statista occidentale all’altezza” che può portare a una soluzione diplomatica della guerra.

 

Quel gigante salvatore della diplomazia è Donald J. Trump. Lo spettacolo della degenerazione di Chomsky è incantevole. 

 

Nel 2014 Obama ripeteva: è necessario trovare una via d’uscita per Putin.  Ma il presidente russo non stava cercando una rampa d’uscita. Stava cercando una rampa d’accesso. L’aveva trovata e l’aveva presa. Si era messo sulla rampa d’accesso all’Ucraina da un decennio. E se uno sa che c’è una rampa d’accesso sa anche che ce n’è una d’uscita    

   

La destra post liberale è invece impantanata nell’ammirazione per Viktor Orbán, che è a sua volta impantanata nell’ammirazione per Vladimir Putin. Si meritano tutti a vicenda. In Polonia, almeno, anche i post liberali, inclusi alcuni dei profeti riveriti da certi intellettuali reazionari americani, sono stati chiari nella loro opposizione alla guerra russa, pure se la Polonia, per ovvi motivi, è sempre stata particolarmente vigile nei confronti della Russia. Tuttavia, anche se abbondano gli orrori in Ucraina, i velenosi vapori post liberali proliferano. Qualche mese fa mi sono imbattuto in un articolo di Patrick Deneen, uno dei più importanti pensatori prodotti dall’Ungheria, in cui si discuteva del pensiero di Augusto del Noce, un filosofo cattolico italiano del Ventesimo secolo che scrisse approfonditamente sull’ateismo moderno, che definiva curiosamente “irreligione naturale”. Deneen scriveva che “Del Noce ha visto meglio e più lontano rispetto ai suoi contemporanei capendo che la grande minaccia totalitaria del nostro tempo originava in definitiva non dalle dittature dei cosiddetti regimi comunisti dell’Unione sovietica o della Cina, ma dal dispiegarsi della logica liberale in occidente”. Un po’ di contesto: la Russia stalinista e la Cina maoista erano “cosiddette comuniste” poiché il comunismo, nell’insegnamento dei post liberali di destra, era in fin dei conti liberalismo. Davvero. Deneen ha pubblicato quella frase sulla minaccia totalitaria dell’occidente mentre le truppe russe massacravano Mariupol. Commettevano queste atrocità, e molte altre, proprio nel nome dell’etnonazionalismo e dell’anti liberalismo che questi reazionari occidentali ci stanno imponendo. Dall’invasione dell’Ucraina, gli scritti di questi  occidentali ingrati, e per mia sfortuna ne ho letti molti, mi sembrano poco più di un sintomo di quella stessa decadenza che denunciano.

  
L’occidente ha trovato un maestro in Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino sta strappando la banalità dalle verità che diamo ormai per scontate; ci insegna ciò che già sappiamo ma che abbiamo retrocesso a cliché e all’inerzia della religione civile; rigenera la bellezza della nostra natura, malgrado tutte le sue mostruosità. E’ un nuovo tipo di eroe contemporaneo: il guerriero liberale. Possiede l’autorità del suo coraggio. Assistendolo nella sua lotta per la democrazia liberale, stiamo restituendogli il favore. Nessuna figura simile è emersa in Europa dai tempi di Havel, pur se non sappiamo se Havel sarebbe stato in grado di gestire una guerra (com’è possibile che entrambi questi leader vengano fuori dal teatro? Rousseau sarebbe sconcertato). 

   

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Nel 2014 passai svariate ore a Maidan, la piazza centrale di Kyiv, o meglio: tra le sue macerie. Era la scena bruciata di una delle migliori battaglie per la democrazia, immediatamente convertita in un memoriale in onore dei manifestanti che erano morti lì. C’erano candele ovunque, in vasetti di colori accesi che contrastavano con la cupezza della scena. C’erano fiori, fotografie, poster, croci e bandiere gialloblu.  La pavimentazione era distrutta e i pneumatici erano impilati in alte torri nere che facevano da barricate. Gli incendi causati dalla repressione del governo avevano annerito i palazzi circostanti, che erano stati anche sfregiati dai proiettili dei cecchini della polizia. C’erano tende in cui i manifestanti della “rivoluzione della dignità” abitavano ancora testardamente, rifiutandosi di ritirarsi dalla scena. Era un onore essere lì. Anche i laici hanno i loro luoghi sacri. Avrei potuto trovarmi nelle strade di Parigi nel 1871 o nella spedizione di Garibaldi. L’impressione che mi faceva quel posto è indelebile: mi ha sciolto e mi ha temprato. Prima di arrivare a Kyiv, pensavo di essere diretto verso una città che aspirava a diventare una città occidentale, e che io stavo andando lì per elogiare questa sua aspirazione. Quando sono arrivato, ho capito il mio errore. Kyiv era già una città occidentale. Non c’è nulla di ambizioso nella sua apertura, nella sua vitalità pluralistica, nella sua energia riformatrice. Certo, era ancora in mezzo al guado; il vecchio ordine autoritario, corrotto e oligarchico non avrebbe abbandonato in silenzio il palcoscenico della storia. Ma le forze della libertà – in un luogo come Maidan si impara a usare queste parole senza ironia o sofisticazione – sembrava stessero vincendo. Se avessero perso, Putin non avrebbe attaccato. 

  

Eravamo preparati, intellettualmente e operativamente, alla guerra di Putin in Ucraina? Dobbiamo prendere in considerazione questa domanda con attenzione, poiché non siamo diretti verso giorni felici. Nel nostro conflittuale paese, s’è realizzato un singolo consenso negli ultimi decenni. Questo: gli Stati Uniti dovrebbero diminuire la propria presenza nel mondo, non dovrebbero più incombere così imponenti, dovrebbero “ridurre la propria impronta” e “giocare per il lungo termine”, dovrebbero adattare il proprio fine ai propri mezzi, dovrebbero venire prima (e non tollerare un secondo posto), e la leadership americana è più un problema per il mondo che una soluzione. Tutte le parti, ognuna con le proprie ragioni, sono d’accordo su queste proposte di miniaturizzazione, che sono diventate famose come “l’arte del governo responsabile”. Alcune volte lo hanno detto in maniera esplicita, come quando il meschino J.D. Vance, candidato repubblicano-trumpiano in Ohio, ha detto: “Non è che mi importi davvero cosa accade all’Ucraina in un modo o nell’altro”. Ha parlato come un vero hillbilly. Ma ci sono molti altri hillbilly della politica estera, ahimè, alcuni stazionano nei corridoi di Acela e anche di Aspen, e hanno la stessa indifferenza nei confronti del destino dei paesi e dei popoli oltre i nostri confini. Quelli che in coscienza non riescono a esprimere apertamente la loro insensibilità  preferiscono definirsi “realisti”. I realisti quasi sempre predicano le stesse posizioni degli isolazionisti, solo che i loro editoriali sono più lunghi. 

  

L’ipocrisia etica del realismo ha trovato il suo rappresentante perfetto in Barack Obama, che ha avvolto il linguaggio di Elie Wiesel con la politica di Henry Kissinger. La guerra in Ucraina è sostanzialmente una conseguenza della timidezza morale e strategica di Obama, che ha aperto un vuoto strategico in medio oriente che Putin ha prontamente riempito, inaugurando la contemporanea (e fino ad allora, improbabile) risurrezione della Russia.

   

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E’ importante riconoscere che il vuoto strategico è stato reso possibile da un vuoto morale: se la politica degli Stati Uniti fosse stata che, in un modo o nell’altro, con l’uso della forza o senza, con gli alleati o senza, non saremmo restati a guardare il genocidio in Siria, avremmo mantenuto una posizione regionale che avrebbe tenuto a bada la Russia. Quelli che difendono Obama dipingono la sua riluttanza come un rispetto per la complessità. Essendo pure io nel business della complessità, posso testimoniare che talvolta abusiamo di questa idea. I realisti hanno un modo compiaciuto di credere che le persone che sono in disaccordo con loro non sono al corrente dei fatti, che soltanto loro, i saggissimi membri di una cerchia, sanno che succede. A loro piace evidenziare che certe azioni sono difficili e hanno dei costi, anche se solitamente sono azioni che disapprovano per altre motivazioni. Qualunque azione storica decisiva è difficile e ha dei costi. Persino noi, interventisti assetati di sangue, lo sappiamo. Ma la giustizia – questa parola non appare mai nei discorsi dei realisti, fatta eccezione per le formule tipo: “Per essere sicuri” – richiede che noi non siamo intimiditi. Potremmo fallire e potremmo sbagliare, ma almeno possiamo convivere con noi stessi; e soprattutto, cosa ancora più importante rispetto alla nostra convivenza con noi stessi, visto che la sofferenza di altri non riguarda in primo luogo noi, è che gli altri possano sopravvivere e vivere.

  

Negli individui, consideriamo l’indisponibilità ad aiutare, ad accorrere in difesa di qualcuno in difficoltà come un difetto caratteriale. Allora l’egoismo nell’azione collettiva non è un difetto caratteriale nazionale? Negli individui, consideriamo l’isolamento dal proprio ambiente, il sottrarsi dall’effettiva partecipazione nel proprio mondo, come un disturbo personale. La stessa relazione collettiva che tronca i  rapporti con la realtà  non è un disturbo nazionale? L’isolazionismo non è psicotico?

 

Ah, per un po’ di tracotanza americana.

 

Dobbiamo superare il nostro appetito di indignazione futurista. Durante gli anni dello Stato islamico, non si poteva ignorare la constatazione, detta sempre con stupore, che esistesse un califfato dell’VIII secolo nel XXI secolo. Incredibile! Be’, no. Tutto ciò che succede in questo momento appartiene anche a questo momento. Dobbiamo considerare l’interezza del mondo in cui abitiamo. Abbiamo scelto di considerare lo Stato islamico un anacronismo perché ci dava conforto. La violenza religiosa – volevamo credere – non è tipica dei nostri tempi, è piuttosto un relitto di epoche precedenti, una florida eccezione alla linearità di Whiggish in cui ci piaceva crogiolarci. Eravamo totalmente abbagliati dalle discontinuità che sminuivamo le continuità. La storia ha offeso il nostro entusiasmo sul futuro. A Obama piaceva fare l’uomo venuto dal futuro: diceva che le nuove grandi sfide per la politica estera fossero l’Ebola e il cambiamento climatico. Nel frattempo, il mondo attorno a lui si faceva sempre più hobbesiano, con aggressioni e brutalità che pareggiavano quelle già in atto. Mentre lui, e molti altri “mandarini” sguazzavano nel globalist cool, il mondo diventava sempre più locale e sempre più westfaliano, cioè più familiare a chi si preoccupava più del passato. Nella sua prima campagna elettorale Obama disse – in una delle sue molte dichiarazioni sulla debolezza dei russi che li rendeva innocui – che “non puoi essere una potenza del XXI secolo e comportarti come una dittatura del XX secolo”. Invece puoi. In modi significativi il XXI secolo è ancora il XX secolo (anche nelle nostre tribolazioni domestiche). Stephen Kotkin aveva ragione quando di recente ha sostenuto e dimostrato che “la Guerra fredda non si è mai conclusa”.

 

Dopo che Antonio Gutteres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha visitato Bucha e i suoi cadaveri, i suoi cimiteri, ha detto: “La guerra è un’assurdità nel XXI secolo. La guerra è il male”. Aveva ragione per metà. Bucha è ora una delle capitali della barbarie moderna, assieme a Urumqi, Rakhine, Aleppo, Srebrenica, Nyarubuye, Lidice, Guernica e altri luoghi ancora. Ma il male non è assurdo e definirlo assurdo significa voler ignorare la sua forza. L’assurdità è una categoria della logica e dell’arte. Il male è una caratteristica inalienabile della storia fatta dagli esseri umani. Ha una propria logica, per questo crea i suoi intellettuali e le sue folle. Se solo le falsità fossero sempre assurde! La guerra in Ucraina non è assurda, poiché è il male.

 

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Una delle ragioni per cui eravamo intellettualmente impreparati alla guerra in Ucraina è che abbiamo passato decenni a esaltare le novità e a dichiarare obsolete le cose vecchie. Ecco un altro esempio. Nel 2010, l’Amministrazione Obama presentò il suo budget per la difesa, un “una riforma del budget”, assieme a un nuovo documento sulla sicurezza. Dato che parecchi stanziamenti militari sarebbero stati tagliati, molti pensavano che i tagli fossero dovuti a considerazioni di natura fiscale. Ma i tagli erano dovuti a una nuova concezione della sicurezza nazionale. Erano guidati da concetti storici e strategici. Il documento annunciava che le guerre di terra fossero una cosa del passato, e che dunque saremmo stati in grado di adempire i nostri obiettivi militari con l’utilizzo principalmente di operazioni speciali e di droni. Era un documento che ben incarnava l’ethos anti guerra in Iraq, ed era basato su un’illusione assoluta. La nuova strategia fu elogiata per la sua superiorità morale: con operazioni dall’alto e chirurgiche, sarebbero morti meno civili (ciò ha condotto inevitabilmente all’obiezione che il minor numero di morti rendesse più probabile l’uso della forza, cioè che anche gli attacchi mirati mancassero di legittimità, che secondo me si avvicina alla soglia del pacifismo, o per lo meno al revival delle idee assurde  di Kellogg-Briand, che comunque stavano già prendendo piede). Ma non puoi conquistare terre, o mantenerle, o scacciare i nemici da certe terre operando dal cielo o come ladri di notte. Ed ecco che s’è presentata la guerra in Ucraina che, metro dopo metro, paesino dopo paesino, smentisce quest’enorme illusione strategica. Stiamo inviando artiglieria pesante agli ucraini poiché non c’è altro modo di cacciare l’invasore. La storia può essere banale, che è il modo con cui ci aiuta a essere pronti.

 

E’ commovente vedere come sono stati ricevuti i profughi ucraini in Polonia e nell’Europa dell’est. Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo assistito a un’accoglienza calorosa e senza polemiche? Poi mi sono ricordato dei miei amici siriani e della dolorosa fatica del loro esodo. Mi sono immaginato di come si sono dovuti sentire quando hanno visto tutti quei sorrisi e quegli abbracci a Przemysl e altrove. In Europa, vedete, gli ucraini non sono esattamente l’altro (questo è ciò che spaventa Putin). Non c’è nulla di male nell’aiutare chi è simile, ma non è esattamente un test per saggiare la propria compassione.

 

Abbiamo sprecato tantissimo tempo nel lungo preludio all’invasione russa. Mentre Putin stava ammassando un’enorme forza nei pressi del confine ucraino, discutevamo fra di noi sulla probabilità dello scoppio della guerra. Quelli che sostenevano che la guerra fosse alle porte, basandosi sull’incontrovertibile evidenza della gigantesca preparazione di Putin, venivano considerati i falchi, mentre in verità erano i realisti. Le colombe, anche se questi termini sono grossolani in queste circostanze, insistevano più sulla diplomazia. Erano convinti che continuare a schiacciare il pulsante dell’ascensore lo facesse arrivare più velocemente. La diplomazia diventò così il placebo per le persone che non avevano voglia di un altro conflitto che, in un modo o nell’altro, caldo o freddo, ci avrebbe coinvolti. Molti funzionari americani pretendevano che una soluzione diplomatica fosse possibile anche mentre i carri armati di Putin cominciavano ad avanzare. Uno dei miei errori preferiti dell’Amministrazione Obama è ricomparso durante l’Amministrazione Biden: l’off-ramp, la rampa d’uscita. Ricordatevi: siamo già passati da questo punto esatto. L’attuale invasione di Putin è il terzo atto della sua estesa guerra in Ucraina: nel 2014 prese la Crimea, e poco dopo creò e sostenne le rivolte separatiste a Donetsk e a Luhansk – ora, dopo il fallimento della presa di Kyiv, tenta di portare a termine il lavoro dei separatisi utilizzando le proprie truppe. Durante la crisi in Crimea, che a dirla tutta non era affatto una crisi, Obama continuava a ripetere che fosse necessario trovare per Putin un’off-ramp, una via d’uscita, come se il ruolo degli Stati Uniti fosse quello di essere d’aiuto alla Russia in modo che imparasse dai propri errori (mi è stata rammentata questa magnanimità mal riposta da una deputata democratica che ha definito l’obiettivo dell’America come: “costruire una vittoria per Putin”). Ma Putin non stava cercando una rampa d’uscita. Stava, molto banalmente, cercando una rampa d’accesso. L’aveva trovata e l’aveva presa. Si era messo sulla rampa d’accesso all’Ucraina da un decennio. E se uno sa che c’è una rampa d’accesso sa anche che ce n’è una d’uscita. Se non ne fanno uso, è perché hanno un itinerario diverso in mente.

 

Troppo spesso negli anni recenti la prudenza americana è diventata passività americana. Mi mancano i giorni in cui eravamo temuti: si sovrapponevano ai giorni in cui eravamo affidabili. L’Amministrazione Biden ha splendidamente dimostrato la sua serietà e la sua determinazione nel sostenere una giusta causa    

 

In ogni caso, l’opzione di girare i tacchi e tornarsene a casa è sempre lì: altri paesi ugualmente orgogliosi lo hanno fatto, la Francia e gli Stati Uniti per dire. Putin è in Ucraina perché è convinto che l’Ucraina sia sua – della Russia, la sua “vicina all’estero” o Novorussiya – e che quindi non si deve trattenere dal distruggere l’esperimento democratico dell’Ucraina. “Abbiamo cercato di procurare possibili rampe d’uscita al presidente Putin”, ha dichiarato il segretario di stato Antony Blinken a marzo: “E’ lui l’unico che può decidere se prenderle o meno”. Ma poi ha aggiunto subito dopo con un significativo cambiamento di tono: “Finora, ogni volta che si è presentata un’occasione di questo tipo, Putin ha premuto l’acceleratore e ha continuato lungo l’orrenda strada che sta perseguendo”. Nel frattempo, gli ucraini non si sono preoccupati delle rampe: hanno coraggiosamente attaccato le autostrade.
Riguardo Putin e la religione: ho letto di recente una poesia ebraica, pubblicata nel 1940, sulla “Guerra d’Inverno”, l’invasione russa della Finlandia nell’anno precedente, che per certi aspetti ricorda l’invasione russa dell’Ucraina. Il poeta si riferiva a uno strano incidente che era stato riportato da un giornale di Stoccolma. Sembra che alcuni piloti finlandesi stessero volando sopra Leningrado e facessero cadere sulla città centinaia di piccole Bibbie, “poiché erano convinti che avrebbero avuto un effetto decisivo sull’animo dell’Armata rossa”. Ve lo immaginate? Putin, intanto, ha il patriarca in tasca. “Siamo entrati in un conflitto che non ha un’importanza fisica, quanto metafisica”, ha vilmente detto Kirill. Gli eroi religiosi della guerra in Ucraina sono i preti ucraini della Chiesa ortodossa che si sono ribellati al pontefice moscovita che è il pupazzo di un massacratore.

     

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Gli Stati Uniti hanno risposto lentamente all’“operazione speciale” di Putin perché non eravamo mentalmente pronti. Ci siamo messi in pari, certo, ma sembriamo sempre in una rincorsa. Una grande potenza – e lo siamo, che ci piaccia o no – non può essere sempre in una postura di reazione. Per lungo tempo, troppa politica estera americana è stata crisis management. In un mondo che è accelerato in modo molto rapido, questa cosa era in qualche modo inevitabile, ma bisogna comunque offrire una resistenza. Il nome di questa resistenza è strategia, o geostrategia, o grande strategia. Qualche anno dopo la caduta dell’Unione sovietica, mi sono trovato seduto allo stesso tavolo con Walter Laqeur, un uomo saggio ed erudito, e uno dei primi analisti a scrivere libri sul “putinismo” e l’ascesa della nuova destra russa, che mi ha detto: è la prima volta in tanto tempo che sento pronunciare la parola “strategia” a Washington. “La geostrategia – disse – è stata rimpiazzata dalla geoeconomia”. Era stato sicuramente vero nei floridi anni Novanta, ma Laqeur era allarmato da qualcosa di più dell’interpretazione economica della politica estera. Le sue parole mi hanno perseguitato a lungo. Il significato di strategia è un tema tristemente complicato, ed è molto difficile definire la coesistenza in questo termine di elementi empirici e morali, di fatti e di finalità, dell’integrazione in un’unica “architettura intellettuale” di tutte le dimensioni di come si fa una guerra. Qui per strategia intendo soltanto questo: la comprensione di ciò che vogliamo, e del perché lo vogliamo. Questa comprensione deve essere sviluppata in modo consapevole in un progetto storico, in un programma d’azione e in uno standard di prontezza. Soprattutto: non bisogna confondersi con i preconcetti intellettuali che abbiamo prima che gli eventi accadono. Anzi, si tratta proprio di mettere in discussione questi preconcetti, che spesso sono solo atteggiamenti o umori o pregiudizi tratti da esperienze recenti. Uno stratega non è indifferente alle circostanze, ma non ne è nemmeno schiavo. Possiede una vocazione per formare, plasmare e alterare un ordine indecente o svantaggioso; e un senso profondo dell’agire; e un certo piacere nell’esercizio di una volontà intelligente. E’ a suo agio con l’idea che il potere esiste per essere esercitato. Riconosce la differenza fra la flessibilità e la reattività; non è rigido, ma non naviga a vista. Il problema, ovvio, è che un progetto storico deve essere un modello che dura nel tempo, ma il tempo non resta fermo. Ci saranno imprevisti ed emergenze che non permetteranno ritardi, se vogliamo risposte efficaci, e che richiederanno più di istinti e improvvisazioni. Se tardi nella risposta a un genocidio, per fare un esempio, non avrai compreso la natura della sfida che hai di fronte. Le sorprese sono inevitabili, ma lo choc è imperdonabile. La nostra preparazione comincia dall’immaginazione (Obama era un caso peculiare: era bravo a fare strategie, qualunque fossero i meriti delle sue strategie, ma era pessimo nella velocità di reazione).

   

Gli Stati Uniti hanno una grande strategia? Nella cultura di costante cancellazione in cui si è assestata ormai la nostra politica, in questa nostra faziosa altalena del fare e dello sfasciare, gli Stati Uniti possono avere una grande strategia? Uno delle principali condizioni per stabilire una strategia è la costanza. Ma quel che facciamo è davvero ancora durevole?

 

Il problema non è, come insistevano George Kennan e Henry Kissinger, la democrazia o l’impatto dell’opinione pubblica interna sulla pianificazione. Lo è semmai lo svilimento della nostra democrazia in quello che sembra uno stato permanente di instabilità, lo è la nostra impulsiva inaffidabilità riguardo al passato, lo è la nostra infernale volatilità. Se vogliamo ridurre la natura erratica della nostra vita pubblica, dobbiamo affrontare rapidamente quest’epoca in cui ci troveremo in una grande rivalità tra potenze, di significativa durata. Anzi, quest’epoca è già cominciata. Strategicamente parlando, la ripresa della Russia potrebbe essere una questione secondaria rispetto all’ascesa della Cina, ma anche le questioni secondarie possono durare per generazioni. L’Unione Sovietica è durata settant’anni, un battito di ciglia nell’arco della storia, ma non nel destino di svariati milioni di persone. Non sono ancora convinto che siamo all’altezza di quel che c’è da fare. La prova sta nei nostri luoghi comuni. Fino al nostro ritiro dall’Afghanistan, parlavamo costantemente di forever war, di guerra eterna. Ovviamente non c’era nulla di interminabile, come abbiamo in seguito dimostrato. La domanda importante non era tanto sulla durata della guerra quanto sulla sua sua opportunità. Se un uso preciso della forza americana è moralmente e strategicamente giustificato, e vi erano opinioni ferocemente diverse sull’Afghanistan, allora dovremo sviluppare un nuovo talento per la pazienza e imparare a pensare (come dicono gli economisti) sulla base di secoli, oppure condanneremo fin dall’inizio le nostre azioni alla futilità. Una delle lezioni impartite dal nostro ritiro dall’Afghanistan è: basta aspettare che poi l’America si stufa (c’è anche un tema di costi, ma il numero di morti ucraini e russi soltanto nei primi mesi di guerra dovrebbe mettere un po’ in prospettiva i costi umani che abbiamo sostenuto in Afghanistan: 2.401 morti in vent’anni). In ogni caso, la forever war è stata prontamente rimpiazzata da un altro cliché: dobbiamo evitare di finire in una “nuova guerra fredda”. E’ tempo di mettere un poco di pressione intellettuale su questo slogan. Innanzitutto, una guerra fredda è preferibile a una guerra calda. Poi il nostro destino non è interamente nelle nostre mani: se Russia o Cina si comportano nei nostri riguardi (o in quelli dei nostri alleati) in maniera ostile, allora ci ritroviamo in una guerra fredda con la Russia o con la Cina. Dunque ci ritroviamo già in due guerre fredde. Possiamo scegliere, naturalmente, di non combatterle, e nasconderci fra i nostri oceani; ma per fortuna non abbiamo preso questa decisione, pure se siamo ancora profondamente a disagio nel definire con accuratezza queste realtà globali. In ogni caso, nulla può disturbare i nostri sonni su una questione importante: l’America è l’avversaria più importante delle tirannie più importanti. Ma non dobbiamo dormire! Il termine “guerra fredda” è divenuto quasi una imprecazione, una parola dispotica, poiché la Guerra Fredda, e mi riferisco a quella tra il 1946 e il 1991, viene erroneamente ricordata come uno scontro senza princìpi fra due potenze nucleari squilibrate che si buttarono sul mondo commettendo crimini ed abusi. Non era così, anche se abbiamo commesso la nostra parte di crimini e abusi. E’ stato un conflitto nobile contro il totalitarismo che nel corso di molti decenni è stato condotto in maniera più o meno severa e più o meno razionale in linea con i nostri princìpi; e chiunque dovrebbe tremare al solo pensiero di come sarebbe la vita in questo mondo se quel conflitto lo avessimo perso.

   

Joe Biden ha molto ragione quando dice che il futuro sarà scandito dal conflitto fra democratici e autocratici. Ma questa è una visione del mondo o è una strategia? Tutto dipende da come il presidente decide di agire rispetto a questa consapevolezza.  

    

Sulla rivista Atlantic, dove tutto si può trovare, uno storico americano sostiene che la Seconda guerra mondiale non appare allo stesso modo se vista dal punto di vista asiatico. Non dubito che sia così. In Asia, ovviamente, i poteri anti fascisti erano anche poteri imperialisti. L’implicazione di questo fatto gigantesco, secondo l’autore dell’articolo, è che dobbiamo mettere da parte il nostro approccio morale alla guerra. Non era una guerra tra il bene e il male. Era una “collisione letale di rivali che agivano secondo il proprio interesse”. L’autore scrive anche con ammirazione di un famoso nazionalista indiano che scappò dalla Germania e costituì una forza indiana per combattere a fianco della Wehrmacht e, successivamente, con il Giappone contro l’India britannica. Per lui, “questa non era un’invasione, ma una liberazione”. Ben per lui. Ma per quale ragione l’ampliamento della nostra comprensione della scena asiatica dovrebbe distorcere la nostra comprensione della scena europea? Il punto di vista indiano della guerra nel sud-est asiatico non rifiuta il punto di vista europeo della guerra in Europa, o il punto di vista ebreo, o quello dei partigiani d’Europa i quali erano animati dalla certezza che il nemico fosse il male. Se l’esperienza degli indiani era diversa dall’esperienza degli europei e degli americani, allora l’esperienza degli europei e degli americani era diversa da quella indiana. La legge della particolarità e della parzialità si applica a tutto, e una cosa non può essere usata per screditare l’altra (e il Giappone non ha esattamente combattuto la guerra con la sola impeccabilità della teoria). Ma si tenta la delegittimazione morale della Seconda guerra mondiale, così come quella della Guerra fredda, non soltanto per amore di una storiografia più approfondita. C’è anche uno fine politico. La giustificazione definitiva da cui deriva il principio dell’interventismo americano, l’argomento storico decisivo che conferma il fatto che la potenza americano è una forza del bene nel mondo, è la Seconda guerra mondiale. Se la togli dalla lista, il progetto ritirista della politica estera americana è completo. Se convinci l’opinione pubblica che anche “la guerra buona” era una guerra cattiva, ognuno può serenamente ripararsi nel proprio giardino, che è dove si trova già la maggior parte delle persone. 

   

Foto Epa via Ansa
    

Qual è l’esito che cerchiamo in Ucraina? La fine del conflitto non è un obiettivo sufficiente. La cosa più urgente in un conflitto non è sempre porgli fine nel modo più veloce possibile (non mi sto riferendo a un conflitto nucleare, ma l’ansia di una guerra nucleare è stata utilizzata in modo eccellente da Putin per frenare l’entusiasmo occidentale sull’Ucraina, e in certi contesti ha funzionato alla grande). Un’“Ucraina sovrana e indipendente,” come dice Blinken, mi sembra l’obiettivo giusto, nonostante siano gli ucraina a dover formulare i termini accettabili per cessare le ostilità. Se fossi in loro, non mi fermerei fino a che non è stato rimosso ogni singolo soldato russo dal loro territorio. Quando il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha dichiarato: “Vogliamo vedere una Russia indebolita a tal punto che non sarebbe più in grado di fare le cose che ha fatto invadendo l’Ucraina”, l’ho applaudito. Putin ha cominciato una guerra crudele e ingiustificata contro i civili di uno stato sovrano che non gli poneva alcuna minaccia se non apprestarsi a partecipare alla comunità delle nazioni liberaldemocratiche. E così ha dimostrato di essere una minaccia capace di ogni ferocia, ora non ci sono dubbi possibili – un nemico attivo e autentico. Negli anni che hanno preceduto il ricorso all’esercito, Putin è stato instancabile nell’alterare i processi democratici dell’occidente, e noi l’abbiamo tollerato. L’invasione dell’Ucraina ha messo alla luce la scioccante mediocrità delle capacità militari russe. E dunque Austin aveva ragione a suggerire che una Russia debole è nei nostri interessi e nelle nostre possibilità, e che non siamo noi a dover essere alla ricerca di una via d’uscita. Ma l’affermazione di Austin ha turbato chi considera qualunque espressione della forza americana come un crinale scivoloso che porta dritto a Baghdad. Sul New Yorker un  reporter nervoso ha scritto che “i funzionari statunitensi vedono ora il ruolo dell’America in termini più ambiziosi, che si avvicinano all’aggressivo”. Aggressivo! Abbiamo giurato di non mandare nemmeno un soldato americano in Ucraina. Biden ha ripetuto questo impegno in continuazione molto prima che cominciasse la guerra (mi domandavo il perché, per questioni tattiche, facesse una tale promessa a Putin. Ma non la stava facendo a Putin, la stava facendo all’ala radicale del suo partito). Ciò che l’Amministrazione Biden ha fatto splendidamente – con straordinarie quantità di artiglieria pesante, con l’intelligence, con sanzioni sempre più spietate e con la sua retorica “ambiziosa” – è dimostrare la sua serietà e prontezza nel sostenere una giusta causa. Visto quanto ha zoppicato la politica estera americana negli anni di Obama e di Trump, questo dovrebbe essere un motivo per rallegrarci. Non stiamo solo reagendo, stiamo anche agendo. E’ finalmente il momento in cui un nostro nemico ha ottime ragioni per temerci.

  

I professionisti lo chiamano il problema della “gestione dell’escalation”. Non è mia intenzione prendere sottogamba questa questione. Ci sono rischi per cui dobbiamo stare attenti. Ma di certo la gestione dell’escalation non può significare che non potremo mai rispondere con una  forza maggiore, specialmente in risposta a un’escalation dell’altro lato. Ci sono escalation di livello ed escalation nei modi in cui si fa una guerra, una grande varietà di strumenti con cui cambiare la rotta del conflitto o determinarne l’esito. Non tutte sono folli e non tutte conducono direttamente all’Armageddon. Dobbiamo essere prudenti, ma non dobbiamo farci prendere in giro. Anche Raymond Aron, il più potente sostenitore della prudenza nei tempi moderni, una volta ha affermato che “la prudenza non richiede sempre o moderazione o compromessi o negoziazioni o indifferenza nei confronti di regimi interni di stati nemici o alleati”. La varietà della prudenza di Aron, come ha dimostrato nella sua lunga vita di filosofia politica e di impegno politica, era decisamente coraggiosa. Troppo spesso negli anni recenti la prudenza americana è diventata passività americana. Mi mancano i giorni in cui eravamo temuti. Si sovrapponevano ai giorni in cui eravamo affidabili.

  

 Nella spazzatura trovai un libro. Quando lo spolverai, rimasi folgorato: era Giobbe – un’edizione del Libro di Giobbe, duecento e qualcosa pagine, pubblicato  nel 1872. Le pagine finali erano coperte di scritte in ebraico e in polacco in una  grafia bellissima. Il volume aveva macchie di fuoco e di acqua. L’ho salvato. Ora è il mio Giobbe ucraino

 

Quando i cattivi, ovunque essi siano nel mondo, si riuniscono per pianificare un’invasione, una repressione, un’espulsione o un genocidio, c’è qualcuno attorno al tavolo che interviene con la domanda: “Aspettate – come risponderanno gli americani?” La prospettiva del potere americano ferma ancora le azioni dei cattivi?

 

Dal punto di vista storico, l’America ha “proiettato” il suo potere all’estero per vari motivi, non tutti commendevoli; ma l’unica nazione al mondo che faceva sì che dittatori e assassini di tutto il mondo ci pensassero due volte prima di fare qualcosa, o che andassero cauti  o che si arrendessero erano gli Stati Uniti (escludo l’Unione sovietica nella Seconda guerra mondiale, poiché era una dittatura omicida che ha aiutato a sconfiggere una dittatura omicida). Se ci sono ostacoli o impedimenti, questi per forza devono essere causati da noi. 

 

Strettamente legata alla questione dell’escalation è la questione della “provocazione”. Prima dell’invasione, quando discutevamo tra di noi sulle probabilità della guerra e Putin ammassava le sue forze, avremmo dovuto mandare armi agli ucraini – armi sofisticate, armi letali. I realisti fra noi ci dissero che questa sarebbe stata una provocazione. E’ risultato evidente subito dopo che Putin non aveva bisogno di alcuna provocazione; era preventivamente provocato. Gli ucraini lo sapevano. In verità, ogni attento studioso del comportamento di Putin era in grado di saperlo. La stessa esitazione si era concretizzata nella persistente contrarietà all’allargamento della Nato dagli anni Novanta, che era fondata sull’idea che, in nome della nostra sicurezza nazionale, avremmo dovuto rispettare le “percezioni” di Putin. Si diceva la stessa cosa dell’Unione sovietica – dovevamo comprendere le radici soggettive delle sue avventure estere, dato che si stava “espandendo poiché si sentiva circondata”. In una famosa frase del “Lungo telegramma” del 1946, George Kennan diceva: “Alla base del punto di vista paranoico del Cremlino riguardo gli affari globali c’è il tradizionale ed istintivo sentimento russo di insicurezza”. Ma chi intendeva allora – e chi intende adesso – attaccare la Russia? Di certo ci sono dei limiti all’approccio terapeutico a stati e statisti. Quanto devono essere sbagliate queste “percezioni” prima che smettiamo di rispettarle? E se le “percezioni” sono fantasie di aggressione e dominazione e sterminio, allora un conflitto diventa più probabile e dobbiamo avere meno tolleranza. La Nato è un’alleanza puramente difensiva formata quando le nazioni dell’Europa occidentale avevano buone ragioni per organizzarsi a tutela della propria difesa. Ci sono ancora: non è insignificante il fatto che nessuno dei paesi attaccati da Putin siano nella Nato. L’Ucraina non è in alcun modo una minaccia militare alla Russia. Neanche la Polonia o i Paesi baltici. Nel frattempo Putin, tramite mezzi militari, tecnologici e altri ancora, ha attaccato grandi e piccoli paesi. Molte persone hanno perso la vita a causa della paranoia di Putin, che è il termine clinico per definire le “percezioni”. Questa stessa esitazione sulle misure americane da attivare in Ucraina fu sostenuta durante il dibattito su assistenza militare americana da offrire allo stato assediato nel decennio scorso. Chi di noi era a favore dell’invio di armi letali agli ucraini non sognava che marciassero trionfalmente su Mosca (non avevamo nemmeno idea che avrebbero potuto essere tanto virtuosi sul campo di battaglia). Desideravamo soltanto alzare i costi dell’aggressione di Putin e preparare il terreno per un processo politico. Siamo stati accusati di aver irresponsabilmente stuzzicato l’orso. Ma era lui ad aver stuzzicato noi. La sfortunata conseguenza di queste prevaricazione è che spesso siamo in ritardo nel nostro pensiero operativo. 

  

Una storia sulla gestione dell’escalation: due uomini sono stati condannati a morte. Sono al muro e il plotone di esecuzione si mette in posizione. Hanno le mani legate. Prima di essere bendati, il capitano del plotone gli si avvicina per chiedere se hanno un’ultima richiesta. Uno di loro chiede una sigaretta. L’altro si rivolge al compagno arrabbiato e dice: “Non creare problemi!”.

  

Ero a Parigi durante la prima settimana della guerra. Era la  settimana più importante nella storia dell’Europa dalla delirante settimana dell’autunno del 1989, quando fu fatto cadere il muro di Berlino. Sembrava in realtà l’immagine speculare di quella settimana – l’antitesi del delirio, che è la sobrietà. La stessa aria era sobria (a Montparnasse un cambiamento così lo si registra in modo netto). Potevo sentire i brividi europei. Nelle conversazioni con amici e con estranei, c’era un’improvvisa pesantezza, una triste consapevolezza del fatto che la vacanza potesse essere finita. C’era un conflitto alle porte. Citando Robert Kagan, gli abitanti di Venere parlavano come gli abitanti di Marte. L’emozione principale non era la paura: era la rabbia, e in seguito la determinazione. L’intensità della solidarietà popolare nei confronti dell’Ucraina era palpabile. Cominciarono ad accadere cose straordinarie. La Germania pose fine alla sua politica del Dopoguerra e alzò il budget per la difesa. Ero convinto che nulla potesse moralmente offendere il Comitato olimpico internazionale, ma pure lui trovò il modo di punire la Russia. Quasi nessuno ripensava con rammarico all’espansione della Nato. La Nato si dotò di una nuova fierezza, mentre la gente dell’est sacrificava la propria vita in nome del sogno di entrare a farvi parte. Acquisì anche una nuova rilevanza: nei primi mesi di guerra era impossibile non avere l’impressione che l’Europa stesse guidando l’America. Questo era in parte il risultato della perdita di fiducia europea nell’America durante le Amministrazioni Obama e Trump, ma rimaneva comunque grandioso. E ancora più grandioso era vedere noi, gli americani, metterci finalmente in pari. A un certo punto l’Amministrazione Biden ha cominciato ad agire con magnifica determinazione. La magnitudine del nostro aiuto all’Ucraina, e il suo spirito hanno una portata storica (avrei voluto che avessimo trovato anche un modo di trasportare pure gli aerei. Forse lo troveremo). Come ha detto Stephen Kotkin: “L’occidente ha riscoperto i suoi molteplici poteri”. Finalmente! E il sostegno americano agli sforzi del nostro governo ha avuto a lungo un gran riscontro nei sondaggi. A chi importa dell’“espressività” di tutte le bandiere ucraine che si vedono sulle finestre e su internet? L’“espressività” è un elemento importante della cultura, e per adesso la cultura americana sta sostenendo la battaglia giusta. Per quanto tempo ancora? Non è mai sicuro scommettere sull’attenzione americana. Tuttavia, pure senessuna società riesce, né dovrebbe, a mantenere una condizione permanente di esaltazione apocalittica, magari usciremo da questa crisi con una consapevolezza più duratura della realtà del mondo.

  

Ogni volta che vado in Ucraina, sento dolore e non sono per gli ucraini. Lì ci sono le mie origini, e sono piene di sangue. Nell’estate del 1941, in una foresta nei pressi di Boryslav, nell’Ucraina occidentale, o Galizia, dove la famiglia di mia madre abitava e possedeva pozzi di petrolio, fu commesso un pogrom dagli ucraini nei confronti degli ebrei locali, e lei, all’età di ventidue anni, era fra gli ebrei a cui era stato dato l’incarico di raccogliere i cadaveri mutilati e di sistemarli per la sepoltura. Tra questi c’era suo zio Elimelech. Ero passato in automobile davanti alla foresta e oltre le “nostre” gru arrugginite sulla strada per Schodnica, la piccola cittadina dove abitava il grande clan di mia madre, e dove, in una stanza improvvisata ricavata in una stalla lei era sopravvissuta durante l’ultimo anno di guerra, grazie alla protezione dei polacchi che avevano lavorato per suo padre nei giacimenti di petrolio. Dopo essermi convinto di aver  individuato correttamente il pendio su cui era appoggiata un tempo la sua casa, e aver completato le mie convulsioni interiori, tornai a Leopoli a cercare il suo liceo (a Leopoli vide Josephine Baker!). Impiegai due giorni a rendermi conto che stavo utilizzando una mappa dell’era Hapsburg, e che via Zygmuntowska era adesso via Gogola. Il preside della scuola mi accolse calorosamente e mi portò in una stanza dove alcuni resti del ginnasio di mia madre – stendardi, cancelleria, eccetera – erano incorniciati ed esibiti con rispetto. In una sinagoga vicina, una volta conosciuta per i suoi murali, pregai come un buon figlio e cercai poi nella spazzatura – il luogo era in ristrutturazione, non saprei dire per cosa. Nella spazzatura trovai un libro. Quando lo spolverai, rimasi folgorato: era Giobbe – un’edizione del Libro di Giobbe, duecento e qualcosa pagine, pubblicato non lontano, a Zhitomir, nel 1872. Le pagine finali erano coperte di scritte in ebraico e in polacco in una bellissima grafia, e c’erano i commenti di Rashi e di un rabbino della fine del IXX secolo chiamato Shmuel Sternberg, che proveniva dalla vicina città di Vinitsiya: aveva scritto un  saggio introduttivo rimarchevole in cui discuteva con i moderni critici non-ebrei della Bibbia e con gli  ebrei medievali aristotelici, e dimostrava enorme sensibilità letteraria nei confronti del testo sacro. Il ricercato volume aveva macchie di fuoco e acqua. L’ho salvato. Ora è il mio Giobbe ucraino. 

 

Anni dopo, quando sono andato a Kyiv, mi accompagnavano le stesse ombre. Attorno all’angolo del mio hotel c’era un’enorme statua equestre di Bogdan Khmelnitsky, il settecentesco idolo del nazionalismo ucraino e una delle figure più vituperate della storia ebrea. La sua  guerra vittoriosa contro i polacchi comprendeva alcune delle più crudeli atrocità presenti negli annali della violenza antisemita. Questo testo è tratto da una cronaca ebrea del 1648 e racconta quel che avvenne agli ebrei nella regione del fiume Dnieper: “Alcuni di loro erano stati scuoiati e i loro corpi gettati ai cani. Alcuni avevano braccia e gambe mutilate ed erano stati buttati sulla strada, dle carrozze gli passavano sopra e i cavalli li calpestavano. Alcuni erano stati seppelliti vivi. I bambini erano stati massacrati nelle braccia delle loro madri, e altri erano stati fatti a pezzi come dei pesci. Alle donne incinte era stato aperto il ventre, era stato messo dentro un gatto vivo, e poi era stato ricucito in modo che non potessero togliere il gatto dalla pancia”. Quando ero ragazzo, conoscevo ebrei per cui “Khmelnitsky” era ancora una parolaccia. E qui c’era l’hetman su un piedistallo, in un bronzo monumentale. Per offendere ulteriormente il mio cuore ebreo, mi era stato detto che il palazzo novecentesco davanti al quale mi trovavo, pitturato in modo bizzarro di rosa, era il tribunale dove Mendel Beilis fu processato per omicidio rituale nel 1913. Passando dinanzi la statua e il tribunale, camminai lungo una ripida strada acciottolata verso la vecchia città, e lungo la strada, direttamente davanti alla casa dove nacque Bulgakov, mi imbattei in una bancarella che vendeva anticaglie della Grande Guerra, fra cui caschi nazisti e una giacca leggermente malconcia con una stella gialla attaccata sopra. Avrei potuto acquistare la stella gialla per trecento dollari. Ero più propenso a sputarci sopra.

 

A ogni modo mi trovavo lì, assieme a degli amici, per offrire il mio sostegno – tenni qualche discorso e conferenza stampa – alla nobile battaglia degli ucraini per la democrazia liberale. C’era Khmelnitsky, ma c’era anche Maidan. C’erano momenti in cui era tutto troppo per la mia testa. Tante fedeltà possono fare male a volte. Conoscevo tutti gli argomenti contro la tirannia della memoria collettiva e contro la responsabilità collettiva e contro l’inevitabilità storica; e la storia della mia stessa gente dimostrava con forza gli effetti benefici della democrazia liberale e della sua Torah dei diritti. Come può un ebreo non sostenere la democrazia? Eppure come può un ebreo sottomettere il proprio scetticismo sulle metamorfosi storiche? Mi sono impegnato a conoscere molti ebrei ucraini, vecchi e giovani, in ogni parte della vita ucraina, e ho chiesto il loro parere sulla situazione. Ognuno di loro, fra cui anche funzionari che conoscevano sia il governo sia il movimento per la democrazia, rispose mostrando una  fiducia pura nel futuro. Conoscevano la stessa storia che conoscevo io, e abitavano lì. Chi ero io per contraddirli? Avevo sempre creduto nella possibilità del progresso, come dovrebbe fare chiunque appartenga a una minoranza, altrimenti finirebbe per accondiscendere al proprio stesso fatalismo. Per gli ebrei, c’erano sempre  due sole strade fuori dalla persecuzione: la democrazia e il sionismo. Sono due  esperimenti epici dell’emancipazione ebraica, le due grandi alternative storiche al baratto europeo, che era autocrazia punteggiata di magnanimità o impotenza punteggiata di felicità. Accesi una yahrzeit per mio padre a Kyiv, e mi ritrovai a recitare il kaddish con uno slancio inaspettato. Durante questa guerra, la partecipazione alla sofferenza ucraina da parte degli ebrei americani è stato entusiasmante  (anche il governo israeliano, che non perde mai occasione di apparire piccolo, ha finalmente fatto bene); rappresenta, fra le altre cose, un commovente superamento della memoria da parte della morale. Il passato fornisce sempre ragioni per un rilassamento etico, specialmente il passato di comunità un tempo oppresse che è pieno  di occasioni di rabbia; ma sono saggi coloro che rifiutano di confondere il miglioramento delle loro condizioni con un tradimento delle loro tradizioni.

  

La speranza, poiché è fondata sull’incertezza, è perfettamente compatibile con la veglia; ma esiste un  tipo particolare di veglia, un’aspettativa del peggio che attraversa il limite della morbosità, una consapevolezza che non è tanto una deduzione della realtà quanto un’interpretazione della realtà, che distrugge la speranza. Il primo requisito di una leadership politica, e di una partecipazione politica, è l’immunità alla disperazione.

  

Questa mattina il direttore dell’Intelligence ha detto al Congresso: “Pensiamo che Putin si stia preparando a un lungo conflitto in Ucraina durante il quale intende raggiungere obiettivi oltre il Donbas”. Ha aggiunto: “E’ anche probabile che Putin sia convinto che la Russia abbia una maggiore capacità e una maggiore volontà di resistere alle sfide rispetto ai suoi avversari”. Potrebbe non avere torto, per lo meno per quanto ci riguarda. Gli ucraini ci possono insegnare come non cedere. La resa dei conti importante ora deve essere con la storia della nostra creduloneria, con la povertà della nostra immaginazione geopolitica, con la nostra apatia nazionale su cosa c’è là fuori. La guerra è successa. Queste parole, “la guerre a eu lieu”, sono il titolo di un saggio di Merleau-Ponty pubblicato nei Temps Modernes nell’ottobre del 1945. Il tema, in seguito alla vittoria, era la mentalità dei francesi alla vigilia del conflitto, che dal suo punto di vista li ha lasciati malpreparati di fronte ai pericoli del loro tempo. “Gli eventi hanno reso sempre meno probabile che si potesse mantenere la pace”, ha scritto. “Come abbiamo fatto ad aspettare così tanto a decidere di andare in guerra? Il motivo era che non eravamo guidati dai fatti. Avevamo segretamente deciso di non voler sapere nulla di violenza e infelicità poiché stavamo vivendo in un paese troppo felice e troppo debole per immaginarcele. Non fidarci dei fatti era diventato come un dovere per noi. Ci era stato insegnato che le guerre nascono da fraintendimenti che possono essere chiariti e da incidenti che possono essere evitati grazie alla pazienza e al coraggio. Abbiamo vissuto in una certa area di pace, esperienza, e libertà formate da una combinazione di circostanze eccezionali. Non sapevamo che questa fosse una terra da difendere. Fin dalla nostra gioventù eravamo abituati a maneggiare la libertà e a vivere una vita individuale. Come avremmo potuto imparare a dedicarci alla nostra libertà per difenderla?”. C’è molto dolore nelle parole di questo filosofo. Non cerca risultati politici. Quando scrive che “i nostri standard erano ancora quelli dei tempi di pace” è un po’ elegiaco, e non si sta certamente prendendo gioco della felicità e della pace. Ma sta anche insistendo sul fatto che una società ha certe responsabilità cognitive. Nulla determinerà il suo destino più della sua abilità di vedere chiaramente, e poi di non tirarsi indietro se ciò che vede è realmente lì. La prima  prontezza è la prontezza mentale

 

questo saggio è stato pubblicato su Liberties nel numero 4, volume 2 dell’estate 2022 

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