l'anticipazione
Il posto della guerra e il costo della libertà: un estratto del libro
Dopo ottant’anni, l’Europa è tornata a essere il posto della guerra. La responsabilità è di Putin, ma il dovere di difendere la libertà è il nostro. La via della pace passa per la democrazia, non viceversa. Il nuovo saggio di Vittorio Emanuele Parsi pubblicato da Bompiani e da oggi nelle librerie
Pubblichiamo un estratto di “Il posto della guerra”, l’ultimo saggio di Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola di Economia e Relazioni internazionali dell’Università Cattolica, da oggi nelle librerie. Questo testo è stato adattato per Il Foglio.
Dopo più di settantasette anni, la guerra ha fatto la sua ricomparsa sul Vecchio continente. L’Europa non è più “il posto della pace”, il luogo dal quale il conflitto tra stati era stato efficacemente bandito, ma è tornata a essere ciò che per molti secoli era sempre stata: “Il posto della guerra”. Una condizione che di fatto durava da quasi ottant’anni, frutto innanzitutto dello sforzo con cui le democrazie l’avevano perseguita e tutelata, è stata interrotta in modo brutale il 24 febbraio 2022, quando Vladimir Putin, dopo aver negato pubblicamente e fino a poche ore prima l’intenzione di farlo, ha ordinato alle sue truppe di varcare i confini ucraini.
L’Ucraina è la vittima prima dell’aggressione russa, un’aggressione che ha fallito finora tutti i suoi principali obiettivi per la strenua, valorosa, appassionata resistenza che le ucraine e gli ucraini le hanno opposto. Con il loro esempio hanno ricordato ai cittadini e alle cittadine di un’Europa attonita che le cose per cui vale la pena vivere sono anche quelle per difendere le quali vale la pena morire e che la libertà individuale e la possibilità di autodeterminare il proprio futuro come popolo sono valori – questi sì – “non negoziabili”.
Una lezione impartita all’invasore, ma anche un ammonimento per tutti noi. Perché la “scellerata guerra” scatenata dal despota del Cremlino ci riguarda tutti. Non è solo una dichiarazione di ostilità mortale nei confronti dell’indipendenza nazionale ucraina, ma costituisce anche un attacco diretto al cuore dell’ordine internazionale: alle sue regole, alle sue istituzioni e ai princìpi sui quali si fondano. Questi princìpi sono i cardini di un ordine nel quale la legge del più forte cede il passo alla forza della legge, proprio come accade nelle nostre democrazie. Perché l’ordine internazionale costruito a partire dal secondo dopoguerra ha assunto come propri i medesimi valori, le stesse procedure, le tipiche modalità di lavoro che caratterizzano le democrazie. E’ questo che lo ha reso – e lo rende – così diverso dagli assetti che lo hanno preceduto e che lo fa definire un ordine “liberale”, che prevede il rifiuto della guerra come pratica ordinaria per perseguire i propri obiettivi politici e tollera il ricorso alle armi nel solo caso della legittima difesa, individuale e collettiva.
Avere riportato la guerra in Europa è una responsabilità gravissima, non certo perché le vite degli europei valgano di più di quelle dei non europei, ma perché proprio dall’Europa sono partite le due guerre mondiali che hanno devastato il pianeta e proprio in Europa abbiamo tratto le conseguenze di questa tragica realtà, provando – fin qui con successo – a cambiarla, cercando di costruire “un mondo nuovo”, facendo diventare, appunto, il “posto della pace” quello che era stato per secoli il “posto della guerra”: un cambiamento che non è il miracolo di un irenismo profetico e parolaio, ma il frutto di una paziente opera di “ingegneria istituzionale”, che parte dalla constatazione che la sola speranza di una “pace perpetua” è consegnata alla trasformazione della natura dei musicisti del concerto europeo. E’ stato attraverso la testarda edificazione di una famiglia di democrazie che quei popoli europei che per secoli non si erano fatti altro che guerre si sono scoperti affratellati.
La pace tra le democrazie – che vede la sua più innovativa realizzazione istituzionale nell’Unione europea – è la sola pace irreversibile, perché disarma le relazioni tra regimi omologhi, le cui intenzioni non ostili sono reciprocamente prevedibili e affidabili, e questo perché le procedure e i princìpi che le governano sono intellegibili. Per dirla semplicemente, la trasparenza dei processi assicurata dalla democrazia consente alle società di rimanere “aperte” – al loro interno e le une verso le altre – e impedisce a qualunque leader politico di mobilitarne le risorse a scopo offensivo. Anche i regimi autoritari sono in grado di “leggere” le intenzioni delle democrazie e ne possono cogliere con molta chiarezza il carattere non aggressivo: la trasparenza è un bene in sé, che consente la riduzione dei rischi per la sicurezza legati al ricorso sistematico alla menzogna e al disprezzo per la verità.
Ma i regimi autoritari talvolta fraintendono la trasparenza del processo democratico e commettono clamorosi errori di percezione e di valutazione, finendo con il credere che le democrazie siano anche imbelli, incapaci o non intenzionate a difendere la propria libertà e la propria sicurezza, non disponibili ai sacrifici che opporsi all’arbitrio, alla prepotenza e alla prevaricazione sempre comporta. E’ questo l’errore commesso da Putin nei confronti dell’Ucraina, in primo luogo, e dell’Europa e dell’occidente nel suo complesso.
Credo sia importante sottolineare la natura irriducibilmente diversa dei regimi democratici rispetto a quelli autoritari per evitare di cadere in quella pericolosa omologazione che porta a mettere sullo stesso piano le ragioni dell’aggressore e dell’aggredito, quel ragionamento intellettualmente pigro ed eticamente cinico che confonde l’equilibrio di giudizio con l’equivalenza delle ragioni. E’ una versione sciatta dell’antica tradizione del “realismo politico” che fatica a cogliere come la realtà della politica internazionale non sia costituita solo dai semplici “fatti”, ma da questi e dalle cornici interpretative che danno loro una collocazione. Insomma, non esiste una realtà concreta fatta di meri eventi concatenati contrapposta a un mondo astratto dove volteggiano i puri ideali. Se la storia europea ci ha insegnato qualcosa è proprio che attraverso sforzi ripetuti e ostinati è possibile cambiare la realtà, illuminandola con quei princìpi e quegli ideali che la possono “ingentilire”.
Putin rivendica spesso di comportarsi come le grandi potenze occidentali hanno sempre fatto, dimenticando che la Russia, di quell’occidente inteso come espressione del concerto delle grandi potenze europee, è stata parte costitutiva. Allo stesso tempo accusa l’occidente – l’Europa, gli Stati Uniti, il Giappone – di ipocrisia e di applicare alla Russia un metro di giudizio particolare e malevolo. In effetti, la Russia agisce con perfetta coerenza rispetto al “vecchio occidente”: nella logica, nell’atteggiamento e nel comportamento della Russia di Putin non c’è nulla di diverso rispetto a ciò che avrebbero fatto le grandi potenze europee dal XVI secolo fino al 1914. Ma l’occidente dopo il 1945 – il “nuovo occidente” – ha assunto un’altra identità, fondata su omologhe forme di organizzazione politico-territoriale sovrane (le democrazie), di organizzazione economica (l’economia di mercato) e modelli sociali (le società aperte), e sull’adesione convinta al rifiuto della guerra di aggressione e dell’occupazione militare come mezzi per variare i confini e annettere territori altrui. E’ questo occidente, l’occidente della “pace democratica”, che Putin giudica una minaccia: non la pressione militare occidentale ai confini russi – che sa benissimo non esistere – ma un modello di successo percepito come pericoloso per la sopravvivenza del suo regime.
Se guardiamo alla situazione contemporanea della politica internazionale, possiamo osservare come siano almeno tre le regioni il cui equilibrio è in crisi conclamata o in via di peggioramento. La prima coincide con il quadrante europeo dove è in corso la guerra della Russia all’Ucraina. La seconda ha per epicentro lo stretto di Taiwan, nel quale la tensione è in costante e ricorrente aumento, e coinvolge soprattutto gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese. La terza è rappresentata dal medio oriente, dove la questione del nucleare iraniano e, più in generale, della contrapposizione tra l’Iran e l’alleanza composta da Israele e dalle monarchie del Golfo potrebbe sfociare in un’escalation militare dalle conseguenze imprevedibili. Sono crisi che hanno cause profonde e fattori scatenanti differenti e che sono ognuna alla ricerca di una propria soluzione. Il quadro è però complicato dal fatto che non tutti gli esiti sono componibili tra loro e che alcuni di questi esiti possono produrre effetti a cascata molto preoccupanti: per esempio, una vittoria russa in Ucraina destabilizzerebbe l’Europa, indurrebbe la Cina a tentare la via militare per chiudere la questione con Taiwan e potrebbe rendere insieme più imprudenti gli iraniani e più inquieti i sauditi e gli israeliani. Oltretutto, un sistema internazionale in così forte fibrillazione è assai poco incisivo nel contenere gli squilibri dei singoli assetti regionali. Più che di una “terza guerra mondiale a pezzi”, ciò a cui rischiamo di andare incontro è uno scenario di entropia del sistema, di caos generalizzato, con risultati davvero imponderabili. Ed è proprio questo che ci richiama a una decisa fermezza con la Russia, consapevoli che, in presenza di tre potenziali grandi crisi, un’alterazione dei princìpi di funzionamento dell’ordine internazionale è un lusso che non possiamo permetterci.
Il consolidamento della democrazia in Ucraina rientra in quella “politica di vicinato” varata dall’Unione europea ormai molti lustri fa per costituire a est e a sud un ring of friends, un “anello di paesi amici”, per aumentare la sicurezza degli stati membri e irrobustire la democratizzazione di quegli stessi paesi. La Russia di Putin mira a costruire una propria “sfera di influenza”, fatta di paesi amici, omologhi anche dal punto di vista del regime politico. Ciò non significa che i due progetti e le esigenze che li sottendono sono “equivalenti”, come troppo spesso si sente ripetere nel dibattito mediatico italiano.
La prima indiscutibile differenza sta nel modo in cui Europa e Russia operano per costituire il proprio ring of friends e la propria sfera di influenza: l’Ue e i governi dei suoi stati membri appoggiano lo sviluppo autoctono della democrazia, non cercano di imporlo con le armi, mentre la Russia interviene con la forza (come in Ucraina) o fornendo assistenza politica e militare (come in Bielorussia) per bloccare i medesimi processi di democratizzazione. Come si vede, la diversa terminologia (ring of friends e sfera di influenza) rivela in effetti una differente concezione della politica.
L’altra gigantesca differenza risiede nel valore che attribuiamo alla democrazia. Se pensiamo che sia un diritto per pochi privilegiati o una possibilità aperta a chiunque si trovi nelle condizioni di poter intraprendere, senza ingerenze esterne, quel percorso che si chiama democratizzazione; se riteniamo che sia un regime obsoleto, superato, sostituibile, oppure la forma di governo “migliore”, “superiore” a qualsiasi altra, la cui espansione è la sola chance per allargare proporzionalmente l’area della pace. Ma se siamo i primi a non rivendicare queste abissali differenze, a non credere con assoluta convinzione alla bontà della nostra causa, allora il piano criminale di Putin conquisterà la vittoria. Sta a noi – all’occidente, all’Europa – impedire che un popolo venga costretto con la minaccia e con la forza delle armi a cedere parte del suo territorio e a rinunciare alla possibilità di autodeterminarsi; sta a noi decidere se aiutare gli ucraini a difendersi da chi vuole privarli della libertà. Sta a noi fare della nostra causa un tutt’uno con la causa ucraina, schierarci a fianco degli ucraini – in primis inviando armi adeguate – in una guerra che è tanto loro quanto nostra: perché se l’Ucraina dovesse soccombere, con lei crollerebbe l’intero edificio della pace, collasserebbe quell’ordine che è stato condizione e motore dello sviluppo della “nostra Europa” pacifica e democratica, e il cui venir meno renderebbe impossibile la continuazione di questo percorso.
Quello che qui sostengo è che la pace interna all’Europa può essere difesa con mezzi pacifici fin tanto che anche chi è ai suoi confini accetta di farlo, ma dev’essere difesa con altri, più classici mezzi se qualcuno la minaccia dall’esterno. E’ un inganno pensare che “pacifico” significhi “imbelle”, che essere disarmati e indifesi possa funzionare di fronte a un aggressore che non si fa scrupoli a usare la forza, che fingersi morti possa salvarci. La “strategia dell’opossum” non paga in politica internazionale. Chi si finge morto, in realtà è già morto.
E’ di fronte a tutto ciò che ripensare la guerra diventa un esercizio etico ancor prima che politico. Tutti auspichiamo che l’orrore della guerra venga risparmiato a noi e alle future generazioni, ma c’è una domanda, tanto spaventosa quanto ineludibile, che dobbiamo porci: “Per che cosa siamo disposti a combattere, a morire, a uccidere?”. La risposta che ci daremo potrà anche essere che non c’è niente per cui valga la pena battersi, ma dovremo accettarne le inevitabili conseguenze. Perché un popolo esiste in quanto libero, vive finché è in grado di autodeterminarsi: altrimenti non esiste più come popolo.
E’ solo nella tutela della democrazia e della libertà che esiste la prospettiva della pace. Per quante responsabilità possano derivarci dal nostro passato di vecchio occidente colonialista e imperialista, ne abbiamo una ineludibile a cui ci chiama il nostro presente di nuovo occidente democratico e liberale: una responsabilità che è proiettata nel futuro e non inchiodata al passato. E’ quella nei confronti delle prospettive della democrazia e della libertà: se non saremo noi a difendere il loro futuro, nessuno lo farà. Che ci piaccia o meno, è questo il senso della guerra in Ucraina.