Il voto di metà mandato

Trump sbraita, l'onda rossa non c'è stata. Perché i democratici hanno tenuto e i conti ancora da fare

Paola Peduzzi

I lasciti del trumpismo, le ragioni dei liberal e quel sottostimato di Biden, che potrebbe ottenere il miglior risultato per il partito del presidente alle midterm degli ultimi vent’anni

Milano. La gran vittoria dei repubblicani al voto di metà mandato negli Stati Uniti non c’è stata, ma la maggioranza alla Camera sembra molto probabile e la contesa al Senato (dove erano in parità con i democratici) è ancora aperta, appesa ai risultati di Nevada, Arizona e Georgia. E’ in parte una questione di aspettative: i trumpiani hanno parlato con insistenza di un’“onda rossa” che non c’è stata (qualcuno ha detto che i trumpiani sono come i collaboratori di Putin: non dicono la verità al capo per paura di contraddirlo). I repubblicani sono ostaggi complici dell’ala del partito che prende ordini, slogan e teorie cospirazioniste da Donald Trump – complici perché non hanno voluto disinnescare l’ex presidente e il suo ruolo nel partito – ma erano comunque stati più cauti sulla possibile vittoria e anzi alcuni avevano detto, subito tacitati, di non essere sicuri che tutto quel trumpismo avrebbe portato al successo. I democratici sono stati molto mesti nelle previsioni. 

 


E per una volta la deformazione delle aspettative ha giocato a loro favore, tanto che ieri alcuni si mostravano addirittura sorpresi. Trump non ha vinto, anzi alcuni suoi gioielli, come Mehmet Oz al Senato in Pennsylvania, hanno perso, e lui si era speso personalmente moltissimo in suo sostegno. Ma abbiamo imparato che i lasciti dell’ex presidente non si misurano nel momento delle elezioni: i candidati selezionati da Trump  sono per la maggior parte dei “deniers”, cioè non riconoscono la vittoria di Joe Biden alle presidenziali del 2020, e almeno 110 di loro per ora sono stati eletti al Congresso o in incarichi statali. Questo vuol dire che la classe dirigente dei repubblicani per almeno i prossimi due anni sarà a trazione trumpian-cospirazionista: era un problema già quando erano soltanto candidati, lo sarà ancora di più quando potranno prendere decisioni. In più, nonostante non sia stata la nottata che Trump aveva promesso,  il suo candidato al Senato in Georgia è al secondo posto ma potrebbe costringere il rivale democratico a un ballottaggio il 6 dicembre, tenendo il Senato in bilico fino ad allora e dando altro spazio e tempo alle campagne virulente dei trumpiani.

 

Il candidato in questione non è uno qualunque: è l’ex giocatore di football Herschel Walker, accusato di violenza domestica e di aver richiesto ad almeno due fidanzate di abortire (una non l’ha fatto) pur proponendo di introdurre un divieto totale di aborto in Georgia. Questa ipocrisia, che caratterizza Trump e anche altri suoi prescelti, non risulta particolarmente fastidiosa agli elettori ed è stata anche molto discussa durante la campagna elettorale: i democratici dicevano di aver scelto un candidato invero scarso (Raphael Warnock) se non riusciva a emergere contro  Walker;  i repubblicani si disperavano perché il radicalismo trumpiano li aveva spinti a scegliere uno inadatto come Walker. Ancora dobbiamo capire chi aveva più ragione a lamentarsi, ma anche questo è un lascito dell’ex presidente. Se mai ci sarà una resa dei conti dentro al Partito repubblicano – sembrava imminente nel 2020, non c’è stata – partirà da qui, cioè dalla selezione di candidati con poche credenziali se non la fedeltà a Trump: in parte qualcosa è già successo, perché alcuni repubblicani hanno fatto campagna per i democratici e perché altri già ieri denunciavano “la qualità” dei candidati (lo ha fatto anche il capo dei repubblicani al Senato Mitch McConnell, che pure quando c’era da fare la selezione taceva).

 

Non ci sono soltanto gli errori dei conservatori. La base dei democratici si è mobilitata, è andata a votare, ha seguìto l’indicazione dei leader che dicevano che queste erano elezioni importanti. La questione dell’aborto – che è stata risolta nei referendum a favore del diritto – ha contribuito anche negli stati in cui non era prevista la consultazione specifica. Secondo molti esperti di area liberal, il rovesciamento della sentenza Roe vs Wade ha dato la scossa all’elettorato liberal, ha acceso una miccia che, nonostante gli stessi democratici dicessero che avrebbero dovuto parlare più di come si combatte l’inflazione che di diritti, poi ha avuto un effetto nelle urne. Secondo Aaron Blake del Washington Post, c’è un’altra importante motivazione della tenuta dei democratici: secondo gli exit poll, gli indipendenti hanno votato al 49 per cento per i democratici contro il 47 per i repubblicani. Non è una grande differenza in termini assoluti, ma mettendola in prospettiva lo è: nelle ultime quattro elezioni di metà mandato, il partito all’opposizione conquistava sempre la maggioranza dei voti indipendenti, mentre questa volta, se il dato è confermato, non è così. Così come alla fine dei conteggi, Joe Biden, il più sottostimato dei leader, potrebbe ottenere il miglior risultato per il partito del presidente alle midterm degli ultimi vent’anni.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi