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Per Scholz la recessione è il segno di una crisi più profonda del modello tedesco

Marco Cecchini  

Le cause e gli effetti delle difficoltà tedesche sono oggi molto diversi e più preoccupanti di quelli di vent’anni fa. Sono legati soprattutto allo choc provocato dalla fine delle illusioni sulle virtù trasformative della Ostpolitik. La guerra di Putin le ha cancellate mettendo in crisi le fondamenta stesse del Modell Deutschland

E’ molto probabile che le previsioni d’autunno, presentate ieri dalla Commissione europea, sull’andamento dell’economia europea provochino in Italia un’onda di quella che i tedeschi chiamano schadenfreude, ovvero una gioia maliziosa per i guai degli altri. Perché dopo essere stata la storica locomotiva del convoglio comunitario oggi la Germania si profila come il suo fanalino di coda, che è il posto spesso occupato dal nostro paese. Il punto di caduta del rapporto dei tecnici di Bruxelles è in una cartina dell’Europa nella quale tutti i paesi colorati in arancione hanno una crescita uguale o superiore a zero e uno solo di colore più scuro ha una crescita uguale o minore di zero. Quel paese è la Germania, che nel 2023 registrerà una caduta del pil dello 0,6 per cento, contro il più 0,3 dell’Unione e il più 0,5 (udite udite) dell’Italia. Non consola per i tedeschi il migliore andamento degli indicatori finanziari, registrato nonostante la crisi energetica, l’inflazione e gli sconquassi geopolitici.

 

La Germania nell’inedito ruolo di fanalino di coda è la spia di una crisi profonda che fa tornare alla mente la copertina che, vent’anni fa, l’Economist le dedicò titolandola “The sick man of Europe”. Anche allora la Germania – all’epoca guidata da Gherhard Schröder, poi non a caso diventato uomo di Gazprom, lo specchio della colpa di un paese che si è riflesso troppo nella Russia di Putin – non cresceva e se ne ricercavano le cause, in un paese sbigottito dopo il lungo e autorevole cancellierato di Helmut Kohl. Vent’anni dopo, i tedeschi tornano a non capacitarsi di quello che succede all’ombra di Olaf Scholz dopo 16 anni di prosperità sotto il regno di Frau Merkel.

 

Tuttavia, le cause profonde e gli effetti della malattia tedesca, anche se egualmente impattanti su investimenti e consumi delle famiglie, sono oggi molto diversi e per certi aspetti molto più preoccupanti di quelli di vent’anni fa: allora erano in discussione la rigidità dell’economia, il potere dei sindacati, le pastoie burocratiche. Oggi è soprattutto lo choc provocato dalla fine delle illusioni sulle virtù trasformative della Ostpolitik. La guerra di Putin le ha cancellate mettendo in crisi le fondamenta stesse del Modell Deutschland. Allora la fuoriuscita dalla crisi fu nel segno di un’Europa di cui Merkel prese la leadership. Oggi, e qui sta l’elemento di preoccupazione, finite l’energia a basso costo e la supercompetitività, la Germania di Scholzomat, l’algido automa, sembra alla ricerca di una nuova via non necessariamente virtuosa e non necessariamente europeista per risolvere i problemi.

 

Sotto le ceneri del Modell Deutscheland la proiezione europea della Germania ammalata sembra affievolirsi di giorno in giorno. I segni dell’indebolimento dell’asse franco-tedesco si moltiplicano, mentre Berlino sembra guardare sempre di più a Est identificandosi nel ruolo guida di quella parte del Continente. La vendita, sebbene parziale, del porto di Amburgo ai cinesi, la cancellazione del tradizionale consiglio dei ministri unito dei due governi, il viaggio a Pechino in solitario (Macron aveva chiesto di aggiungersi ma ha ricevuto un niet), le divergenze sul Patto di Stabilità, i 200 miliardi di sussidi stanziati in barba a tutte le discussioni e i progetti su una possibile nuova iniziativa comune europea per reggere l’urto della crisi energetica come era stato fatto con la pandemia: tutti questi sono segnali che sembrano a senso unico: la via nazionale verso la salvezza.

 

La crisi provoca angoscia e Berlino vuol fare presto a uscirne e da sola. Il quotidiano francese Les Echos nei giorni scorsi, ospitando un’opinione del direttore dell’Istituto Montaigne, ha scritto a proposito delle mosse di Scholz di una politica para trumpiana del Cancelliere all’insegna del motto Germany First. E’ un’ipotesi in cerca di ulteriori conferme. Ma le brutte previsioni della Commissione non potranno che rafforzare questo strisciante isolazionismo.

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