l'analisi
G20 e futuro: Biden può aiutare Meloni ad allontanarsi dal trumpismo
La vittoria dei democratici alle elezioni di midterm può servire ad allontanare l’Italia, in Europa, dal modello Montesano e dall'impronta di Donald Trump. Anche perché, sui dossier internazionali il presidente degli Stati Uniti e la leader italiana parlano la stessa lingua
L’incontro che si terrà oggi a Bali durante il G20 tra il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e la presidente del Consiglio dell’Italia, Giorgia Meloni, ha un significato importante, dal punto di vista simbolico, per almeno tre ragioni diverse. Una prima ragione riguarda la politica estera, una seconda ragione riguarda la politica interna, una terza ragione riguarda i rapporti di forza internazionali del nuovo governo italiano. Sulla politica estera, l’elemento sorprendente del rapporto tra Joe Biden e Giorgia Meloni è che, nonostante la perdita della figura di Mario Draghi alla guida del paese, l’allineamento tra Stati Uniti e Italia sullo scacchiere internazionale promette di essere saldo come lo è stato negli ultimi anni.
Sulla guerra in Ucraina, Meloni e Biden parlano la stessa lingua e la lingua è quella del sostegno alla resistenza contro il macellaio russo, anche a costo di sfidare l’opinione pubblica dei propri paesi e continuare a inviare armi per difendere l’esercito ucraino. Anche su Taiwan, Meloni e Biden parlano la stessa lingua, difesa a oltranza contro le “minacce inaccettabili della Cina”, ed è significativo che nonostante queste posizioni ieri, a Bali, Meloni abbia annunciato un bilaterale con il presidente cinese Xi Jinping. Sulla Nato stessa linea, difesa a oltranza dei valori dell’Alleanza atlantica, e stessa linea anche sulla difesa di Israele e sulla difesa degli iraniani in piazza contro il regime degli ayatollah. Per quanto possa apparire paradossale, la politica estera di Meloni, pur essendo una politica estera espressa da un partito che si considera conservatore, è una politica estera che presenta punti di contatto maggiori con l’agenda democratica rispetto a quelli registrati con l’agenda trumpiana, specie sull’Ucraina, ed è anche per questo che il rapporto tra Biden e Meloni potrebbe avere un peso involontario anche su una seconda ragione che riguarda questa volta la politica interna.
Meloni probabilmente non può confessarlo, anche se con qualche amico in queste ore lo ha fatto, ma il risultato emerso dalle elezioni di medio termine negli Stati Uniti, con una sconfitta netta del trumpismo, con una disfatta evidente della stragrande maggioranza di candidati appoggiati da Trump e con un allontanamento mediatico del Partito repubblicano dalle posizioni dell’ex presidente americano (che proprio oggi annuncerà la sua ricandidatura), rappresenta un assist per tutti i partiti conservatori desiderosi di emanciparsi dalla stagione tossica del trumpismo bannoniano.
Una destra che, grazie ai successi politici di Biden, ha la possibilità di scaricare il trumpismo senza doverlo esplicitamente rinnegare, senza limitarsi a fare altro che qualche tweet a favore della sua possibile alternativa tra i repubblicani, Ron DeSantis, governatore della Florida appena rieletto con una maggioranza schiacciante, è una destra che ha ulteriori strumenti per provare a far propria una lezione emersa in modo chiaro durante le elezioni di metà mandato. Lezione perfettamente sintetizzata ieri dal sito Axios con queste parole: “Una delle tendenze più chiare emerse dalla notte delle elezioni è che la maggior parte dei candidati repubblicani estremi ha sottoperformato gravemente ed è proprio l’estremismo a essere costato ai repubblicani la sconfitta in molte competizioni vincibili e il conseguente controllo del Senato”.
Un Partito democratico, in America, capace di spingere i repubblicani verso una stagione di non estremismo può aiutare anche i repubblicani europei a non rincorrere più le imposture trumpiane. A condizione che la più importante tra le leadership conservatrici d’Europa, ovvero quella di Giorgia Meloni, sfrutti l’occasione del G20 per comprendere un’altra lezione, finora non ascoltata, trasferitagli da Mario Draghi prima del suo congedo. Il vero tavolo che conta, per il capo del governo italiano, non è il tavolo della politica italiana ma è il tavolo della politica internazionale. E quando si vuole far ottenere qualcosa di importante al proprio paese, più che preoccuparsi di offrire qualche contentino ai propri alleati in Italia disperdendo un enorme capitale politico in Europa che potrebbe servire per tamponare problemi importanti per il nostro paese come quelli energetici e come quelli economici, occorrerebbe ricalibrare la propria attenzione su una questione strategica che coincide con una domanda.
E la domanda è questa: quanti sono, nei tavoli internazionali, gli amici che si hanno a disposizione per provare a ottenere risultati nel proprio paese? Meloni uscirà dal G20 con un rapporto forte con l’America di Biden ma se si osservano i tavoli importanti dove si prendono decisioni cruciali per l’Italia ci si renderà conto che creare crisi diplomatiche sul nulla, ritrovandosi dopo tre settimane di governo più vicini a Malta, Grecia e Cipro e più lontani dalla Francia, dalla Spagna e dalla Germania, e ritrovandosi costretti a chiedere l’aiuto del Colle per risolvere un patatrac che si poteva evitare, significa continuare a non capire una lezione ulteriore che il G20 contribuirà a far suonare forte nelle orecchie del capo del governo italiano: il nazionalismo è contro l’interesse nazionale e muoversi nei consessi internazionali usando slogan alla Enrico Montesano non è il massimo per chi vuol proteggere i confini della credibilità di un paese.