Gli attori del regime
L'inganno dei riformisti in Iran: "Un cambio di regime non è nemmeno desiderabile"
Un pezzo grosso della nomenklatura riformista ha ammesso che l’ex fronte di Mohammed Khatami non ha più niente da dire alle piazze. Il cambiamento è una chimera e i manifestanti protestano al suono di: "Siete tutti uguali. Morte al dittatore"
"Noi iraniani amiamo la vita e non vogliamo morire – ha detto Hossein Ronaghi al Wall Street Journal lo scorso aprile – Però abbiamo scelto la libertà e può darsi che sia questo il prezzo da pagare per ottenerla”. Ronaghi è un giornalista, un blogger, un attivista che si batte per il rispetto dei diritti umani in Iran, da anni è anche un prigioniero politico che vive più dentro che fuori dal famigerato carcere di Evin. Domenica notte centinaia di persone hanno risposto all’appello dei suoi genitori e si sono assiepate davanti all’ospedale di Dey dove Ronaghi è stato trasportato in condizioni critiche. Poliziotti in borghese e agenti antisommossa hanno circondato la folla e nel frattempo il prigioniero è scomparso, Ronaghi non è più all’ospedale, ai familiari non è stato permesso di vederlo, e nessuno sa più dove sia stato condotto. Sono queste le storie che riempiono i giorni di passione degli iraniani, perché la violenza è l’unico modo con cui la Repubblica islamica sa maneggiare il dissenso. Sono decine di migliaia le persone arrestate. “Be my voice”, invocano i ragazzi che manifestano e il regime si avvita in una lotta contro il tempo per tappare la bocca a chiunque osi parlare. Sono più di cento gli artisti iraniani che sono stati imprigionati dall’omicidio di Mahsa Amini, registi, attrici, produttori, musicisti, nessuno può considerarsi al riparo, ogni mattino porta la notizia di un nuovo arresto, mentre un’ennesima ondata di manifestazioni si annuncia a partire da oggi fino a sabato 19, in ricordo dei 1.500 morti della rivolta del novembre 2019.
Mentre l’establishment clericale rinsalda la sua alleanza con i pasdaran, mentre i bassiji sparano alle ragazze che ballano e il Parlamento dominato dagli ultraconservatori invoca la pena capitale per i ribelli, viene da chiedersi che fine abbiano fatto i riformisti, il volto presentabile del regime, le colombe nell’eterno giochetto dei buoni contro i cattivi, in cui i buoni erano loro, quelli che credevano nella possibilità di coniugare l’ideologia della Repubblica islamica con la democrazia, e i cattivi, i conservatori duri e puri fedelissimi alla Guida suprema, Ali Khamenei, che rovinavano il sogno delle magnifiche sorti e progressive del cambiamento.
Perché a parlare smarcandosi dalla linea ufficiale che attribuisce l’esclusiva responsabilità dei disordini agli americani, agli inglesi, agli israeliani, a Bbc Persian e a Iran International sono stati soprattutto i conservatori, uomini come Ali Larijani o Mohammed Bagher Qalibaf, insider, vicini ma non troppo al cuore pulsante del potere, ossia l’ufficio di Khamenei, interessati a dimostrare malleabilità a futura memoria. I riformisti, invece, sono rimasti perlopiù zitti. Timide dichiarazioni contro la violenza, una fumosa ipotesi di referendum la settimana scorsa e poco più. La realtà, come ha ammesso Behzad Nabavi, un pezzo grosso della nomenklatura riformista, è che l’ex fronte di Mohammed Khatami non ha più niente da dire alle piazze.
“Non possiamo schierarci con i manifestanti e i loro slogan sovversivi. Non accettiamo queste parole d’ordine, noi vogliamo riformare il sistema (…), non vogliamo piazzarci sotto la dinamite”. Del resto è dal 2009 che i riformisti sono scomparsi, annichiliti dall’avanzata dei pasdaran, marginalizzati dalla repressione nel post Onda verde, hanno perso smalto, energia e ideali. Ma la verità è che l’inganno, l’autoinganno, inizia molto prima. Uno dei ritratti più vividi delle speranze, delle possibilità e dei limiti dei riformisti lo traccia un libro del 2003 di Geneive Abdo e Jonathan Lyons intitolato “Answering only to God”. “Ai miei occhi, agli albori la Repubblica islamica si reggeva su tre assi portanti: il primo era la leadership carismatica dell’ayatollah Khomeini, il secondo era il ruolo del clero, la natura oligarchica del sistema, e il terzo era l’aspetto democratico, che si manifestava con l’elezione del Parlamento e del presidente della Repubblica”.
A parlare è Alireza Alavitabar, intellettuale riformista, già rivoluzionario della prima ora e recluta pasdaran negli anni della guerra Iran-Iraq. “In noi era molto forte l’aspetto utopistico, un elemento comune a molti rivoluzionari, l’utopia purtroppo può facilmente diventare il cuore del totalitarismo, allora non lo sapevamo”. All’inizio per Alavitabar l’adesione ideologica non lascia spazio al dubbio. “Credevo di amare la libertà, ma a ripensarci mi rendo conto che desideravo l’unità più di quanto desiderassi il pluralismo”. Il suo sguardo comincia a cambiare verso la fine della guerra. Nel gennaio del 1988, Ruhollah Khomeini completa la rivoluzione teologica che preconizza dagli anni Quaranta, stabilendo il potere assoluto del velayat-e-faghih, ossia la supremazia della Guida suprema, il che non solo significa elevare un giureconsulto eletto a vita sopra alle altre istituzioni dello stato, ma anche porlo in una posizione di preminenza rispetto a pilastri dell’islam, come la preghiera, il digiuno ed il pellegrinaggio alla Mecca.
Cristallizzando l’obbedienza al leader supremo in un imperativo teologico, Khomeini abolisce la distinzione cara all’universo sciita tra il mondo della fede, governato dalla legge islamica, e il mondo della politica: sacro e profano si fondono. “I comandamenti della Guida suprema (…) sono equivalenti ai comandamenti di Dio”, spiega l’allora presidente e successore di Khomeini, Ali Khamenei. Per giustificare questo distacco dal magistero sciita, Khomeini invoca l’idea del maslahat, ossia dell’“interesse superiore”. È per proteggere l’interesse superiore della giovane Repubblica islamica che Khomeini acconsente a elevare Khamenei al ruolo di Guida suprema, benché quest’ultimo sia ben lontano dall’aver completato il cursus honorum che dovrebbe consentirgli di accedere all’incarico. Ed è sempre in ossequio al maslahat che Khomeini dichiara che un autentico stato islamico ha il diritto di ignorare persino la legge islamica, se lo ritiene opportuno. Poiché il fine ultimo – argomenta Khomeini nel 1988 – è il potere dello stato, la sua durata, la sua continuità e nessun interesse lo può in alcun modo sopravanzare.
Gli idealisti sono già spacciati, ma Alavitabar e il cenacolo di intellettuali che a partire dalla fine della guerra iniziano a riunirsi per interrogarsi sulle storture del sistema stentano a riconoscerlo. “Siamo arrivati alla conclusione che per la Repubblica islamica non sarebbe stato possibile sopravvivere affidandosi a una leadership carismatica o al potere di un’oligarchia – racconta – Ci siamo convinti che la strada da percorrere fosse quella democratica”. Alavitabar inizia a gravitare attorno al Centro di studi strategici, un think tank che sulla carta ha il compito di presentare riflessioni indipendenti sulle tendenze politiche e sociali e che, nella pratica, si trasforma nel rifugio dell’intelligentsia indebolita dall’ascesa alla presidenza di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Insieme ad Alavitabar si ritrovano gli esponenti della sinistra clericale cresciuti all’ombra di Mohammed Mousavi Khoeiniha, ma anche il vice capo dell’intelligence Said Hajarian, il filosofo Mohsen Kadivar, il futuro ministro della Cultura Ataollah Mohajerani, Mohammed Khatami e il giornalista Abbas Abdi, protagonista della presa dell’ambasciata americana, in una vita tanto diversa da non sembrare la stessa. Dibattono temi come la tolleranza religiosa, il rispetto delle minoranze, la necessità di fondare partiti politici indipendenti, si chiedono che ruolo debba ricoprire la società civile e come garantire la certezza del diritto. A poco a poco le loro idee filtrano nelle aule universitarie e approdano nei seminari.
Nel ’92 i conservatori si mettono di traverso, Alavitabar e Abdi vengono espulsi dal Centro di studi strategici e il think tank rinuncia a essere un motore di innovazione intellettuale. Le speranze di riforma migrano sulla stampa e in particolare sui giornali fondati da uomini sedotti dalle teorie di Abdolkarim Soroush, il teologo che offre una copertura allo stesso tempo sciita e modernista alla loro crisi d’identità. Il testo da leggere in quegli anni è il suo: “La contrazione teoretica e l’espansione della conoscenza religiosa”. Secondo Soroush, allora descritto come il Martin Lutero dell’islam, non solo i pronunciamenti di un esponente del clero non vanno interpretati come definitivi, ma nessuna classe sociale, nemmeno la più dotta, può pretendere l’esclusiva sullo sviluppo e sull’evoluzione del pensiero religioso. “Camminiamo sulle spalle del dottor Soroush”, dichiara all’epoca Hamid Reza Jalaiepour, ideatore del quotidiano Jameah e nella stagione intensa in cui aprono e chiudono giornali a velocità supersonica sembra davvero possibile che due passi avanti e uno indietro, la Repubblica islamica possa davvero cambiare.
Quando viene eletto Khatami il mantra degli intellettuali che hanno iniziato a cambiare pelle nei lunghi pomeriggi trascorsi al Centro di studi strategici è “pressione dal basso, per negoziare in alto”, ma nei fatti negli otto anni della sua presidenza Khatami non si fa mai forte del mandato popolare per affrontare Khamenei. Sì, sorride spesso al punto che lo ribattezzano “mullah khandan”, il mullah che ride; sì, parla di dialogo tra le civiltà e nei consessi internazionali sa farsi ben volere, ma quando si tratta di incidere sulla sostanza delle cose, ritrae ogni volta la mano. A posteriori racconterà di aver affrontato una crisi ogni nove giorni, di essere passato da un braccio di ferro a un altro con Khamenei e i conservatori e di averli perduti tutti. Ma nell’estate del ’99, quando la polizia e i bassiji attaccano i dormitori dell’università di Teheran facendo volare i ragazzi giù dai balconi, quando Teheran si infiamma per sei giorni e la maglietta piena di sangue di uno studente finisce sulla copertina dell’Economist, Khatami incontra un gruppo di giovani e l’unica cosa che è capace di dire è ricordare di essere stato uno dei fondatori della Repubblica islamica e di non avere alcuna intenzione di disfarsene.
“Da quando in qua un un governo religioso sciita fonda la sua azione sulla base alle opinioni della gente? Queste posizioni, queste opinioni, semplicemente non sono il criterio da tenere in considerazione. Solo Dio può definire ciò che è bene e ciò che è male”, ha detto in un programma della tv pubblica alcune settimane fa il professore dell’università di Teheran Mohammad Sadegh Kooshki. È questa la realtà con cui si scontra chiunque voglia trasformare il regime dall’interno, il gradualismo riformista è una chimera. “Un cambio di regime in Iran non è possibile e nemmeno desiderabile”, ha detto ieri Khatami, spezzando un lunghissimo silenzio, la stessa frase che avrebbe potuto pronunciare vent’anni fa. Ma intanto in Iran le piazze seguitano a riempirsi, le ragazze cantano con i capelli liberi sulle spalle e nelle università gli studenti gridano: “Riformisti, conservatori siete tutti uguali. Morte al dittatore”.