la risposta di mosca

La Russia scatena un attacco punitivo contro l'Ucraina

Micol Flammini

A Bali il ministro Lavrov isolato non ottiene ciò che voleva e Mosca bombada: cento missili su Kyiv al posto della diplomazia

Prima che Mosca ricominciasse a colpire le città ucraine, tra i pochi disposti a parlare con il  ministro degli Esteri russo ci sono stati il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, che al G20 di Bali si sono sentiti ripetere che è Kyiv a rifiutare il negoziato con Mosca. Sergei Lavrov sembrava essere arrivato al vertice con l’obiettivo di intessere i legami necessari a riportare al Cremlino qualcosa di concreto, come un agognato cessate il fuoco, la cui utilità non è arrivare alla pace ma riorganizzare la guerra. A questo obiettivo erano serviti sia l’annuncio scenografico del ritiro delle truppe russe dalla città di Kherson, sia le parole  “negoziati”, “colloqui”, “dialogo” usate continuamente dai funzionari del Cremlino. A Bali, Lavrov ha visto il presidente ucraino Zelensky acclamato e si è trovato davanti un muro con scolpite sopra le condizioni della pace. 

 

Se il ministro voleva un assaggio dell’isolamento a cui sta andando incontro la Russia con la sua guerra contro l’Ucraina l’ha avuto, ed è stato amaro. Lavrov aveva fama di essere un abile diplomatico, ma al G20 non ha riportato alcun successo nella mediazione. Mosca avrebbe potuto dimostrare di essere pronta a parlare, invece ha scelto di incrementare la guerra e in un attacco punitivo su larga scala ha bombardato le città ucraine. Kyiv, Leopoli, Ternopil, Odessa, Mykolaïv, Dnipro, Zhytomyr, si sono ritrovate al buio, sono corse nei rifugi mentre la Russia colpiva e martellava le infrastrutture civili. La diplomazia è durata meno di ventiquattr’ore, Mosca non ha ottenuto quello che voleva   e ha ricominciato la sua strategia del terrore, con cento missili che hanno colpito anche edifici residenziali.

 

La Russia non poteva dare una prova più concreta del fatto che non è interessata alla pace e che ogni tentativo di trattativa viene utilizzata per ottenere una tregua debole. A Mosca infatti si discute soltanto di come portare avanti il conflitto, il presidente russo, Vladimir Putin, ha firmato un decreto per estendere anche ai russi con doppia cittadinanza, a chi risiede all’estero e agli apolidi la possibilità di essere arruolati. Appena due settimane fa aveva annunciato la fine della mobilitazione parziale che ha coinvolto trecento mila reclute e sta ponendo già le basi per la seconda ondata di mobilitati. La domanda che si fanno molti russi è se questa volta il Cremlino chiuderà le frontiere per impedire la fuga degli uomini che non vogliono essere mandati al fronte. E’ necessario aizzare la popolazione contro gli ucraini, proprio come era avvenuto con i ceceni nei primi anni Duemila e il Cremlino tenta di far sentire i russi sempre più in pericolo. Per questo è stato annunciato che verranno mappati e controllati i rifugi che erano rimasti chiusi dalla fine della Guerra fredda, soprattutto nelle zone di confine, come a Belgorod, dove ieri, secondo l’agenzia Ria Novosti, sarebbero cadute due bombe ucraine e due civili sarebbero rimasti uccisi. Lavrov era già ripartito prima che l’attacco contro l’Ucraina iniziasse e nelle stesse ore, per manifestare tutta la mancanza di buona volontà, Putin nominava le città occupate di Melitopol e Mariupol “città della gloria militare”. 

 

Sul campo di battaglia l’Ucraina ha recuperato circa il 50 per cento dei territori occupati, Mosca perde e indietreggia, anche a est, dove con l’utilizzo dei mercenari della Wagner sta cercando di resistere e avanzare nella zona di Bakhmut. Ha lasciato la città di Kherson che aveva annesso con un referendum fasullo a fine settembre, ma continua a dire che è territorio russo e in patria, per mostrare che la guerra ha ancora senso, alcuni politici russi fanno vedere le foto di presunti collaboratori filorussi che sarebbero stati legati ai pali a Kherson, lasciando intendere che è dovere di Mosca difendere la sua gente. Leonid Slutski, uno degli uomini a cui sono stati affidati i negoziati con l’Ucraina, ha detto che è impossibile avviare dei colloqui, fino a quando la diplomazia degli Stati Uniti “avverrà secondo i termini del regime fascista e drogato” di Kyiv. Il mantra dei colloqui è durato soltanto per un fine settimana, prima che partisse il vertice del G20 in cui Mosca ha visto che la sua rete di alleanze è molto sparuta e gli occidentali si muovono compatti. 

 

C’è un punto su cui russi e ucraini continuano però a parlarsi: il grano. Sabato scadono gli accordi che Mosca e Kyiv hanno firmato separatamente per assicurare la navigabilità del Mar Nero ai mercantili carichi di cereali. La proroga è ancora in fase di negoziazione, e a Bali ci sono stati incontri cruciali, perché Mosca vorrebbe un accordo rivisto che comprenda l’utilizzo della stessa rotta che percorrono le esportazioni ucraine e, secondo il Financial Times, anche l’utilizzo del gasdotto di ammoniaca che arriva a Odessa. La lista delle richieste di Mosca è lunga, ma anche le pressioni sono forti: il mese scorso Putin aveva sospeso l’accordo, ma è dovuto tornare indietro. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)