Un argine chiamato Biden
Ha aiutato le democrazie a difendersi dalle dittature. Ha smascherato il pacifismo ipocrita dei progressisti. Ha offerto alla destra un’occasione per emanciparsi dal trumpismo. Oltre il G20. Cosa c’è da imparare dal presidente degli Stati Uniti
L’annuncio della candidatura di Donald Trump alle presidenziali del 2024 arriva in un momento importante per l’America guidata da Joe Biden. Un momento in cui, dopo il buon risultato ottenuto dal presidente democratico alle elezioni di medio termine, vale la pena concentrarsi per una volta non tanto sugli errori degli avversari, quanto sui meriti dei vincitori. Joe Biden, che ieri al G20 in Indonesia ha incontrato la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, è uscito vincitore dalle elezioni di metà mandato sia per ragioni di natura politica sia per ragioni di natura culturale.
Le ragioni di natura politica sono evidenti. I repubblicani dovevano trionfare, il mid-term doveva servire a rilanciare Trump, e le sue teorie del complotto, e invece, come sappiamo, nulla di tutto questo è successo. I democratici controlleranno per i prossimi due anni il Senato, il trumpismo è uscito indebolito, i media conservatori hanno scaricato The Donald e chi invece è uscito rafforzato è proprio colui che nel mondo repubblicano si oppone al trumpismo: Ron DeSantis. Le ragioni di natura culturale sono invece meno evidenti, ma non meno interessanti, e riguardano alcuni ambiti diversi che hanno permesso al presidente americano di essere il vero protagonista del G20 in Indonesia.
Il primo ambito riguarda un risultato importante ottenuto dal presidente americano negli ultimi mesi: Biden, tra i leader del mondo occidentale, è quello che ha creduto maggiormente alla possibilità che il macellaio russo, Vladimir Putin, potesse essere fermato e se la pace in Ucraina non si trasformerà in una resa, il merito sarà prima di tutto ascrivibile alla sua Amministrazione. Non era scontato, così come non era scontato che martedì, nella prima bozza del comunicato finale del G20, firmato anche da alcuni paesi finora molto timidi sulla guerra in Ucraina, fosse presente esplicitamente l’espressione “guerra”, così come non era scontato che in una stagione come quella che viviamo oggi, in cui le democrazie hanno dovuto affrontare prove gravose come la gestione di una pandemia e la gestione delle conseguenze generate da una guerra locale dai riflessi globali, le democrazie liberali uscissero in buone condizioni di salute (a parte l’Ungheria, non c’è un solo paese occidentale andato al voto negli ultimi dieci mesi, dalla Francia all’Italia passando per la Bulgaria, la Svezia e la Slovenia, che non abbia bocciato i partiti ambigui sulla guerra in Ucraina).
Non è tutto merito di Biden, naturalmente, ma è certamente anche merito di Biden se negli ultimi anni la difesa della globalizzazione, demonizzata da Trump, abbia sempre più coinciso con la difesa della democrazia liberale, e se la difesa della democrazia liberale abbia a sua volta sempre di più coinciso con un approccio politico anch’esso demonizzato a lungo dall’America First modello Trump: la cooperazione globale. Le grandi crisi, è stato ricordato in questi giorni al G20, crisi che possono riguardare la nostra salute pubblica, crisi che possono riguardare la nostra sicurezza alimentare, crisi che possono riguardare il nostro benessere energetico, si possono affrontare solo facendo della globalizzazione, e della cooperazione, una grande opportunità. E in un mondo all’interno del quale, per molto tempo, le catene di approvvigionamento e le catene del valore si andranno inevitabilmente ad accorciare avere un’America decisa a non coltivare il suo splendido isolamento costituisce un formidabile sostegno a tutte le democrazie desiderose di combattere gli istinti illiberali. Biden, con tutti i suoi difetti e i suoi errori, alcuni anche gravi come il ritiro dell’America dall’Afghanistan, in questi due anni è stato un argine a tutto questo. Ma è stato anche un argine prezioso contro alcuni pericolosi estremismi di sinistra.
E l’altro grande merito del presidente americano in fondo è stato proprio questo: sposare una linea di interventismo liberale degna degli anni 90, anche mostrando discontinuità con lo stesso presidente Obama di cui Biden era vice, sfidare la sinistra illiberale sul terreno della difesa della libertà, non assecondare più del dovuto le isterie del wokismo, non cadere nelle trappole della cancel culture liberale e mostrare con chiarezza il lato oscuro del pacifismo progressista e anti imperialista mettendolo di fronte alle sue ambiguità, alle sue ipocrisie e alle sue irresponsabilità.
E’ stato un argine a tutto questo, Biden, ma è stato anche, sia per la destra sia per la sinistra, il simbolo di una doppia sfida di fronte alla quale si trovano, in tutto il mondo, le destre e le sinistre cosiddette liberali: disarmare gli estremismi interni e quelli esterni, fare del multilateralismo un alleato dell’interesse nazionale, mettere i motori della globalizzazione al servizio della difesa della libertà e offrire un sostegno alla destra nazionalista per evitare che virus come il trumpismo possano tornare a diffondersi nel corpo non invincibile delle destre mondiali. Combattere gli estremismi, whatever it takes, o assecondarli? La lezione dei primi due anni di Biden in fondo è tutta qui, e vale per tutti, compresa Giorgia Meloni.