Kyiv ricorda la protesta di Euromaidan del 2013: l'inizio della guerra di oggi
Tutto ciò che non capimmo delle manifestazioni pro Europa: la repressione, gli “omini verdi”, la Crimea e l’accusa di russofobia che ha stravolto tutto
Il 21 novembre del 2013, Piazza indipendenza a Kyiv si riempì di manifestanti: era l’inizio della protesta che abbiamo conosciuto come Euromaidan, e ieri l’Ucraina in guerra – l’aggressore oggi come allora è sempre la Russia di Vladimir Putin – ha celebrato il giorno della dignità e della libertà, ricordando le vittime della repressione. Stavamo scrivendo un nuovo capitolo della storia del mondo, ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, “senza nemmeno saperlo”, e ancora oggi lo stiamo facendo. In quella piazza gelida le bandiere europee ci fecero una grande impressione. Lo fanno ancora oggi, ma nove anni fa un popolo che manifestava per avvicinarsi all’Unione europea, che scriveva sui cartelli “No Putin no cry”, che dormiva nelle tende nel ghiaccio, che riuscì a far scappare in poco tempo, con la pressione che i cecchini non riuscivano a fermare, l’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich, era di una potenza sconvolgente, che pure non capimmo. O forse l’inconsapevolezza possiamo attribuirla agli ucraini, i protagonisti di questa storia, ma di certo non a noi, che guardavamo con cautela quella protesta, timorosi della reazione della Russia.
Nel giro di pochi mesi, quella resistenza divenne grande e indefessa e la reazione del Cremlino fu brutale, non soltanto sulla piazza ma anche sul resto del paese: arrivarono gli “omini verdi”, militari che non portavano i segni dell’esercito russo (poi se si distinguevano in qualche efferatezza venivano premiati a Mosca con delle medaglie, ma se dicevi: sono soldati russi, ti prendevi di russofobo), crearono le forze separatiste in parte del Donbas costringendo l’Ucraina ad aprire un fronte dentro al suo stesso paese, e naturalmente ci fu anche il referendum falso in Crimea, l’annessione, qualche sanzione, ma pure il coro occidentale: sono tutti filorussi nella penisola crimeana, loro stanno meglio così. La violazione della sovranità ucraina era già stata digerita. La guerra di Putin all’Ucraina cominciò allora e fu feroce proprio perché il Maidan non si lasciava disperdere né fermare, perché l’Europa – la libertà e la democrazia – era già allora una buona ragione per rischiare la vita (e per sopportare il buio e il freddo). Mosca rifornì i suoi uomini (che per anni abbiamo comunque chiamato separatisti, come se fossero avulsi dai fondi e dai rifornimenti della Russia) di batterie antiaeree che cambiarono del tutto l’aspetto al conflitto. In “Road to Unfreedom”, lo storico Timothy Snyder scrive: “Nel maggio del 2014, la Russia iniziò a fornire armi antiaeree e gli uomini che le sapevano far funzionare: furono abbattuti quattro elicotteri; a giugno due aerei; a luglio altri due. Gli ucraini dovette smettere di volare sul Donbas, e i russi colsero l’occasione”.
Colpirono anche un aereo di linea, l’MH17, uccidendo tutte le persone che c’erano a bordo, ma pure la strage di civili, oltre all’indignazione e a qualche (innocua) sanzione, non cambiò la percezione dell’occidente, che era duplice: si tratta di un affare ucraino, e in fondo quell’area orientale dell’Ucraina è filorussa, quindi un pochino russa. Il resto lo fecero la granitica convinzione occidentale che Putin potesse essere governato e la propaganda russa che già allora mentiva sul ruolo dei militari di Mosca ma considerava la (blanda) fornitura di armi da parte degli occidentali a Kyiv come una ingerenza pericolosa e come una provocazione. Erano anche gli anni della guerra in Siria: Mosca colpiva obiettivi civili come gli ospedali o i convogli di aiuti umanitari, ma poi negava, diceva che erano stati i “terroristi” (che gli aerei non ce li avevano) e nei consessi internazionali denunciava la russofobia imperante. Se nella guerra siriana, dove le responsabilità russe erano chiarissime (c’erano i filmati e le testimonianze), la propaganda di Putin funzionava, immaginatevi in Ucraina, dove la guerra era stata declassata a “conflitto a bassa intensità” (13 mila morti) e a un affare interno all’ex mondo sovietico, dove s’era smesso di contare i morti, dove non si parlava nemmeno di guerra e si intavolavano negoziati (a Minsk, patrocinati dai bielorussi) che nessuno rispettava ma che permettevano di pensare ad altro. Sempre da “Road to Unfreedom”: “Secondo le rilevazioni dell’unico istituto affidabile in Russia, l’86 per cento dei russi accusava l’Ucraina di aver abbattuto l’MH17 nel settembre del 2014, e l’85 per cento continuava a farlo nel luglio 2015, quando gli eventi erano stati indagati ed erano chiari. I media russi esortavano i cittadini russi a indignarsi perché erano stati falsamente incolpati”. La settimana scorsa, tre persone – due russi e un ucraino che lavorava con i russi nell’est dell’Ucraina – sono stati condannati all’ergastolo per l’abbattimento del volo MH17.
Nel 2015, il regista israelo-americano Evgeny Afineevsky girò “Winter of fire” (si può vedere su Netflix), un documentario sulla protesta del Maidan che racconta la forza della piazza e la violenza della repressione messa in campo dalle forze speciali della polizia, le Berkut. Ci sono due momenti memorabili: l’11 dicembre del 2013, le Berkut lanciarono un assalto enorme al Maidan, e un sacerdote del monastero di San Michele suonò tutte le campane per avvertire i manifestanti della repressione: era la prima volta che ogni campana era stata suonata all’unisono dall’invasione dei mongoli del 1240. Il secondo momento è quando vengono vietati gli elmetti in piazza e allora i manifestanti si difesero con gli scolapasta sulla testa. Era già tutto lì: la resistenza ucraina in difesa della libertà e la ferocia russa. E c’è chi ancora oggi pensa che questa guerra sia colpa della Nato.