Uomini coraggiosi
Le storie degli uomini d'Iran che sanno “prendere esempio da una donna”
I ragazzi iraniani onorano i sacrifici delle ragazze. S’è rivoluzionato anche il significato di “virile”
Pare frivolo parlare di sentimenti mentre in Iran aumenta la contabilità dei morti, mentre le forze di sicurezza sparano puntando agli occhi dei manifestanti, ma è proprio dai sentimenti che parte questa storia, dall’orgoglio delle donne e dalla tenerezza degli uomini, eppure mentre delle donne si parla molto, degli uomini non si dice abbastanza. Sì, fanno rumore i gesti eclatanti degli sportivi che si rifiutano di cantare l’inno nazionale, ma quello che rende davvero unico questo snodo di vita persiana, quello che va trasformando la protesta in un momento fatale per il regime, non sono i beau geste a favore di telecamera e tantomeno le marce e gli slogan struggenti urlati nei megafoni: quello che c’è di veramente dirompente in quest’autunno iraniano è una nuova normalità fatta di sguardi. Sguardi ammirati di giovani uomini che cedono la parola alle ragazze e le issano sui tetti delle macchine, sguardi rispettosi di quarantenni che abbassano il finestrino per gridare: “Barikalla!” (“Brave!”) alle studentesse che agitano il velo sopra la testa, sguardi affettuosi di uomini anziani che davanti a due bambine che cantano “Baraye”, la canzone-simbolo della rivolta, levano le mani dal deambulatore e divaricano le dita in segno di vittoria, sguardi adulti negli occhi di ragazzini disarmati che fanno scudo alle amiche d’infanzia con i loro corpi.
Tutto questo ha poco a che vedere con la tolleranza di uomini magnanimi che invocano libertà di scelta riguardo al velo. La partita che si sta giocando in Iran è molto più radicale e riguarda i desideri degli uomini e delle donne.
Riguarda la loro consapevolezza, il loro bisogno di non nascondersi, di condividere lo spazio non solo nel chiuso delle case, ma anche in pubblico, di scendere in strada e prendersi per mano, di baciarsi sotto la luce di un lampione, di mangiare e ridere insieme, spalla contro spalla, dentro una mensa universitaria.
Perché questa è la rivoluzione di tutte le donne che avrebbero potuto essere al posto di Mahsa Amini, ma è anche la rivoluzione di tutti gli uomini che, dopo la sua morte, non sono riusciti a fare a meno di domandarsi se in questo Iran vale davvero la pena di esistere.
Uomini come Hamid Reza Rouhi, che è stato ucciso, a vent’anni, con un colpo alla testa, in un vicolo di Teheran, e che prima di uscire di casa ha scritto: “Se chiudono internet per sempre, voglio che sia questo il mio ultimo messaggio: lunga vita alle donne, lunga vita alla libertà, lunga vita all’Iran”.
Uomini come il ventottenne Mohammad Hasanzadeh, accoltellato la settimana scorsa a Bukan, mentre cercava di liberare una ragazza dalla morsa di un gruppo di bassiji.
“Questo potrebbe essere l’ultimo giorno della mia vita – aveva scritto poche ore prima – se deve essere sia, per il bene del nostro paese”.
Uomini come suo padre che durante il funerale ha detto: “Un tempo quando parlavamo di qualcuno dotato di integrità e di coraggio, dicevamo: è molto virile. Ma oggi se un uomo vuole essere un uomo deve prendere esempio da una donna. Bisogna essere femminili per essere veri uomini adesso”.
Uomini come Amjad Amini, il padre di Mahsa, che da subito ha denunciato: “Stanno mentendo. Tutto è una bugia (… ), non mi hanno permesso di vedere mia figlia”.
Uomini come Hassan Daroftade che sulla tomba del figlio ha gridato: “Sono fiero di Komar (…). Il mio cuore si è infranto, ma questo è il suo sacrificio, un sacrifico in nome della libertà”.
Uomini che curano i feriti di nascosto perché negli ospedali i manifestanti rischiano di essere arrestati, uomini che non si piegano e che documentano l’orrore, come i cinque dottori dell’ospedale Imam Ali di Karaj che hanno raccontato lo strazio perpetrato sul corpo di Armita Abbasi.
“Per anni – dice Kian (nome di fantasia) al Foglio – abbiamo spremuto il piacere dai blog o dalle pagine di un libro proibito, ci siamo scambiati canzoni vietate, siamo migrati da un social network a un altro, e gli adulti sono solo stati in grado di borbottare che stavamo perdendo tempo, ma la verità è che questo tempo ci ha permesso di viaggiare anche stando perfettamente fermi. La verità è che siamo cresciuti, ci siamo innamorati e abbiamo scoperto che non ha senso vivere nella menzogna. Adesso tutto a un tratto lo stanno capendo anche gli altri”.
Che gli iraniani siano inquieti nella Repubblica islamica è il segreto di Pulcinella. Nel regime c’è chi da anni suona l’allarme e registra la disperazione crescente degli iraniani, ma le soluzioni approntante per arginare l’angoscia hanno sempre avuto il sapore della beffa. Nel 2008 il comune di Teheran ha provato a porre un freno al fenomeno dei cosiddetti “ragazzi perduti” istituendo appositi workshop del sorriso. Un anno più tardi il ministero degli Affari interni ha addirittura annunciato il lancio di una “campagna di ingegneria della felicità”. Inutile sottolineare che nessuna di queste iniziative ha ottenuto più di un’alzata di sopracciglio.
“Un bambino chiamato felicità è andato disperso”, scrive il poeta Mohammed Reza Shafi Kadkani. “E’ così – dice Kian – La nostra tristezza affonda nell’assenza, dentro un vuoto colossale, nella mancanza di colore, di musica, di balli, di sfrenatezza da esibire sotto gli occhi di tutti. Noi questo vuoto abbiamo deciso di riempirlo e l’unico modo per farlo è prendere per mano le nostre ragazze e tenerle strette costi quel che costi”.
Davanti a questi nuovi uomini iraniani torna in mente un racconto di Habibe Jafarian intitolato “Come essere una donna a Teheran”. In questa storia, una storia autobiografica, Jafarian ha già lasciato la città natale di Mashad e si è trasferita a Teheran a caccia di “storie vere”. Da quando se ne è andata il padre la chiama spesso e ogni volta che arriva il momento di salutarla lui non riesce a non aggiungere: “Ho paura per te Habibe”. Del resto la paura è sempre comparsa nei loro discorsi. Quando Jafarian era ancora una bambina si trattava della paura che avrebbe fatto meglio a tenersi stretta, perché la paura era il peggior difetto in un uomo e la migliore qualità in una donna. Ma Jafarian non ci ha mai creduto, e forse nemmeno suo padre, che in fin dei conti l’ha lasciata andare, e anche in seguito, di donne timorose, Jafarian non ne ha incontrate granché. La scrittura, al contrario, le ha fatto conoscere molte storie di coraggio, non ultima quella di sua madre che alla fine di ogni aneddoto ama chiosare: “Sono sempre stata una donna fino in fondo e pure un uomo”. Perché per sopravvivere in Iran, scrive Jafarian, occorre fare il doppio turno, essere fino in fondo una donna e pure un uomo.
La sensazione in queste settimane in cui tutto si muove a velocità supersonica è che il cerchio si stia chiudendo, che se per un uomo essere un vero uomo significa anzitutto onorare il sacrificio di una donna, nulla, davvero nulla, in Iran potrà più essere come prima.