Fallimento Zero Covid
Le due opzioni di Xi Jinping dopo le proteste: aprire o punire
La pandemia è servita al Partito per reprimere ancora di più. La Cina inizia a rivoltarsi
Nonostante la propaganda, sta arrivando lenta una consapevolezza: il Partito comunista cinese, soprattutto nella nuova rinnovata e accentratissima leadership di Xi Jinping, ragiona per calcoli e non per interesse della popolazione. L’obiettivo interno è la sopravvivenza del sistema, quello esterno la sfida all’America e all’occidente
Difficile dire, in questa fase, se siano stati davvero i Mondiali di calcio in Qatar ad aver acceso le proteste spontanee di questi giorni in Cina. La Cctv, l’emittente statale cinese, nel dubbio ha iniziato a censurare le immagini dei tifosi sugli spalti che si abbracciano ed esultano senza mascherine durante le partite di calcio seguitissime in Cina. Sarebbe stata proprio quella finestra su un mondo che in qualche modo ha superato la crisi pandemica ad aver fatto realizzare a molti cinesi una cosa: la politica Zero Covid di Xi Jinping c’entra poco con la crisi sanitaria, ma ha soprattutto una funzione di controllo e di coercizione. Ed è un modello giustificabile solo dall’esistenza stessa del sistema autoritario, che non può perdere la faccia e cambiare strategia, dopo aver puntato tutto sull’eliminazione del virus e criticato per mesi la gestione dei contagi da parte dei paesi occidentali.
Le proteste in Cina sono aumentate all’improvviso, durante lo scorso fine settimana, in numero e per diffusione – da un angolo all’altro del paese, fra città distantissime tra loro – ma non sono arrivate inaspettate. Da mesi dalla Cina provengono segnali che mostrano la rottura di qualcosa nel sistema sociale del paese: l’esistenza del Partito unico, del Partito comunista cinese, è da sempre tollerata in virtù di una certezza di sviluppo, benessere e sicurezza. Con il Covid, la leadership di Pechino ha fatto esattamente l’opposto. Ha fatto impoverire intere regioni, ha fatto scappare gli investitori e gli imprenditori internazionali, ha chiuso in casa (o meglio, ha sbarrato le porte d’uscita) milioni di persone, ha limitato i movimenti non solo per l’estero, ma anche all’interno della Cina, ha cancellato l’illusione di un sistema che avesse al centro le persone, i cinesi, come ripete ossessivamente la propaganda di Pechino. Semplicemente non è così, e non è mai stato così. Il Partito comunista cinese, soprattutto nella nuova rinnovata e accentratissima leadership di Xi Jinping, ragiona per calcoli e non per interesse della popolazione. L’obiettivo interno è la sopravvivenza del sistema, quello esterno la sfida all’America e all’occidente. E’ stato così in passato, con lo choc sociale della politica del Figlio unico, e trent’anni di aborti forzati e sofferenza che secondo i funzionari di Pechino (e i loro sostenitori acritici, anche in Italia) sarebbero alla base della riscossa economica cinese. Così funziona per la politica Zero Covid: il controllo sulla popolazione in virtù di una emergenza sanitaria affrontata in modo scomposto, non scientifico, poco incline al dialogo con il resto del mondo, ha fatto in modo che venissero imposti lockdown su larga scala, improvvisi, che decine di migliaia di persone venissero rinchiuse in centri di isolamento che somigliano molto ai centri di detenzione, che venissero saldate le porte d’uscita di interi palazzi e condomini. Mentre le persone iniziavano a crollare, in quello che sembrava sempre di più un gigantesco esperimento sociale da film horror, il Partito si girava dall’altra parte.
Non è un caso se tutto sia iniziato tre giorni fa a Urumqi, la capitale della Regione autonoma dello Xinjiang. Un luogo simbolico, casa della minoranza uigura, che vive l’autoritarismo di Pechino più di altri. Giovedì scorso un incendio è divampato al quindicesimo piano di un palazzo di Urumqi, e dieci persone sono rimaste uccise, e altrettante ferite, perché le vie di fuga erano state bloccate dalle autorità. Perché lo Xinjiang vive in lockdown da agosto, e nessuno può muoversi da casa. Anche a costo della vita. E’ la stessa trappola che si vede nei video che circolano online, di persone che cercano di scappare dagli “omini bianchi” in tuta anti-contaminazione, e che vengono picchiati se vogliono evitare le restrizioni. E’ stato per ricordare i morti di Urumqi che sono state organizzate le prime veglie – proprio come a Hong Kong – che sono diventate, man mano, una critica esplicita e inedita al Partito. Ci sono state proteste non solo a Shanghai, la megalopoli che ha subìto uno dei più duri lockdown della storia della pandemia, nella scorsa primavera. Secondo la Bbc, nella città di Zhengzhou, alla fabbrica Foxconn, centinaia di operai che da settimane erano in lockdown hanno protestato per chiedere più diritti, hanno distrutto telecamere di sorveglianza e finestre, e ci sono stati scontri con la polizia. A Chongqing, nel sud-ovest della Cina, un uomo senza mascherina è diventato uno dei simboli delle proteste, per aver urlato alle Forze dell’ordine: “Datemi la libertà o datemi la morte!”. Quello di questi giorni è il più ampio, esteso, significativo atto di resistenza contro il Partito comunista cinese da decenni. Ma c’è anche molta cautela, tra gli analisti. Ieri le ambasciate di America e Regno Unito a Pechino hanno inviato messaggi pubblici ai connazionali senza mai citare le proteste, mettendo a disposizione i numeri d’emergenza e chiedendo alle persone di attenersi alle regole, anche se non condivisibili. Le proteste però sono il più importante test di tenuta per Xi Jinping. L’accademico Minxin Pei, del German Marshall Fund, ha scritto ieri sul Nikkei Asia che sebbene il Partito sia abituato a reprimere proteste locali, “le proteste in corso sono di portata nazionale e hanno come obiettivo il massimo leader cinese e la sua politica”. Xi si trova di fronte a una scelta epocale: “L’opzione più sensata sarebbe quella di trasformare questa crisi in un’opportunità”, scrive Minxin Pei, “invece di reprimere, Xi potrebbe dichiarare che lui e il Partito hanno ascoltato il popolo e hanno deciso di cambiare rotta”. Ma “questa correzione di rotta comporterebbe seri costi politici. Alcuni dei manifestanti hanno sfidato apertamente l’autorità di Xi e del Partito, chiedendo a gran voce di dimettersi. Una tale sfida politica non ha precedenti nell’èra post Tiananmen. Lasciare andare i manifestanti senza una punizione severa potrebbe incoraggiare la futura opposizione popolare al governo del Partito”.