le casse del cremlino
Il futuro della guerra passa dalla reazione di Putin sull'embargo al petrolio
La Russia potrebbe dover accettare il price cap sul greggio, ma nonostante il danno economico, le entrate potrebbero continuare a finanziare sia la spesa sociale sia l'invasione. La differenza la farà la decisione tra l'opzione "dura" e quella "morbida"
Siamo al dunque. La settimana prossima scatta l’embargo Ue del petrolio russo, una fonte primaria di finanziamento del Cremlino e quindi della guerra di aggressione in corso, nonché dei suoi ricavi valutari con cui finanzia le importazioni. All’embargo, con tutta probabilità, si aggiungerà un price cap sul greggio russo venduto verso altri paesi. Si danno due casi:
(a) la Russia accetta l’esistenza di un tetto al prezzo del suo greggio e, se anche i paesi terzi abbracciassero il tetto, il trasporto marittimo di petrolio russo assicurato dalle compagnie occidentali potrebbe continuare. Il tetto al prezzo di cui si dibatte va da un minimo “punitivo” di 20 dollari al barile, a un massimo “volto al dialogo” di 60 dollari. Quest’ultimo prezzo non è così distante da quanto ora la Russia ricava, dovendo vendere a sconto.
(b) la Russia non accetta il tetto al prezzo, anche a rischio di perdere quote di mercato. Mosca potrebbe vendere il suo petrolio ai paesi terzi, che non abbracciano il price cap, ma le navi che lo trasporterebbero non sarebbero più assicurate dalle compagnie occidentali che dominano il settore. Ma non è affatto un’operazione semplice. Vi sono navi che potrebbero voler viaggiare anche senza assicurazione, ma non sono in numero sufficiente per trasportare tutto il petrolio ora venduto in Europa.
Se il tetto funziona, un vantaggio per l’Europa si manifesta con il prezzo del petrolio, che, grazie al tetto, è compresso, e quindi non emerge una spinta all’inflazione da costi, intanto che il greggio russo resta sul mercato globale secondo le quantità di prima. Un secondo e non minore vantaggio si manifesta con il finanziamento della guerra di aggressione russa che è ridotto per il minor prezzo del petrolio esportato. La Russia potrebbe essere costretta ad accettare il tetto perché, per quanto possano essere ridotte le sue entrate fiscali e valutarie, esse sono comunque sufficienti per finanziare una parte della spesa sociale e una parte delle importazioni e della guerra.
L’alternativa è che il price cap non funzioni: ovvero la Russia blocca le esportazioni verso tutti i paesi che l’applicano. Lo svantaggio per l’Occidente: venendo meno il petrolio russo, in mancanza di un’offerta sostitutiva sufficiente, come quella proveniente dalla Penisola Arabica, il prezzo potrebbe salire molto con l’ovvio effetto sull’inflazione. E potrebbe salire anche di più, se la Cina riprendesse a domandare una maggiore quantità di petrolio, una volta messo sotto controllo il Covid o allentato le politiche “zero Covid”. L’embargo occidentale sul petrolio russo, unito al price cap del G7 e all’embargo russo del suo gas potrebbero produrre una crisi economica e alimentare disagi sociali in Europa, disagi facili da sfruttare sul piano politico.
Dall’altro lato anche la Russia, bloccando l’export, rischierebbe di trovarsi con le “spalle al muro” per la mancanza di entrate adeguate per finanziare sia la guerra in Ucraina sia il consenso politico interno. In questo caso, messa di fronte al dilemma fra “burro o cannoni”, Mosca può anche decidere di alzare il livello dello scontro militare per “salvare l’onore” e cercare poi un negoziato su un terreno per lei migliore.
La differenza fra l’opzione “morbida” e quella “dura” è legata alla dinamica della guerra in Ucraina. Se in Russia prevale il desiderio di un’uscita, o se prevale il desiderio di andare a uno scontro peggiore. Qui però non siamo sul terreno dell’analisi economica, ma su quello delle decisioni che possono essere prese dal Cremlino.