L'INTERVISTA
La voce di un bassiji. “Questo sistema non può durare”, ci dice un miliziano del regime iraniano
“Là fuori è un vero inferno”, ammette un membro della famigerata milizia richiamato per reprimere le proteste. I sibili dei vicini, il tesserino prezioso del “corpo degli oppressi” e gli sputi in faccia
Quando la sera torna a casa, Arash si massaggia le tempie, seduto sopra a un divano damascato con i braccioli di legno, oscilla lievemente avanti e indietro con il collo, le labbra socchiuse, lo sguardo perso nel vuoto, e nessuno gli rivolge la parola. Se le circostanze fossero diverse, la moglie non perderebbe tempo e gli si parerebbe davanti con le mani sui fianchi, puntando un dito prima verso le impronte luride che i suoi stivali hanno impresso sul tappeto, e poi verso la giacca che non è stata riposta nell’armadio e giace sopra alla consolle con le foto dei figli e le statuine smaltate che hanno comprato a Kashan.
Ma Arash non è più lo stesso da un pezzo, per cui Zar si dirige verso la camera dei ragazzi per implorarli di abbassare la voce, e poi ripercorre a ritroso il corridoio, entra in cucina, ignora il notiziario, lava l’insalata, si sintonizza su una soap opera turca, e intanto prega, ma senza crederci troppo, che il marito riesca a liberarsi dai suoi pensieri di piombo. Ha i nervi a fior di pelle, sospira Zar, Arash ha gli occhi stanchi e lucidi come acini d’uva appena schiacciati, aveva smesso di fumare, ma non ce l’ha fatta, a una settimana dal giorno in cui lo hanno richiamato in servizio ha ricominciato, e tossisce molto, per via delle sigarette, ma anche a causa della polvere e dei gas lacrimogeni. Arash tossisce in continuazione anche di notte, quando abbandona la testa sul cuscino, ed è talmente esausto che non riesce a prendere sonno.
“E’ orribile là fuori, un vero inferno”, dice Arash, al Foglio, la prima volta che ci sentiamo. Lo ripeterà spesso nelle quattro settimane in cui comunicheremo, dirà “immagina il peggiore dei tuoi incubi”, dirà “per loro uccidere è come bere un bicchier d’acqua”, dirà “sogno di svegliarmi in un mondo libero dalla feccia che sfrutta le nostre risorse nazionali per distruggerci” e, nel corso di queste conversazioni, gli capiterà di dividere il mondo in buoni e cattivi, dirà “noi” intendendo l’Iran delle ragazze con i capelli al vento e “loro” per alludere e quello usurpato dalla Repubblica islamica e dalle sue forze di sicurezza. Sennonché i piani si intersecheranno di continuo, perché l’uomo che in questo articolo chiameremo Arash è entrambe le cose, un trentenne che parteggia per la rivolta e un membro della famigerata milizia bassiji. Per questo motivo, i nostri appuntamenti salteranno senza preavviso, il tono di Arash si farà alle volte molto teso e altre molto concitato, e la donna che abbiamo scelto di chiamare Zar fluttuerà, di giorno in giorno, tra speranza e pessimismo, tra approvazione e biasimo rispetto alla disponibilità a raccontarsi del marito. “Ricordati che sei un padre!”, si spazientirà Zar a un certo un punto. “Taci!”, replicherà Arash interrompendo il collegamento in un nanosecondo e un paio d’ore più tardi mi contatterà per sincerarsi che non esista alcun fraintendimento: lui e Zar sono dalla stessa parte, solo che ogni tanto la pressione diventa insostenibile e lei non riesce a trattenersi. “Ma lo capisce anche lei che la nostra realtà è inaccettabile, che così non si può andare avanti, che se io parlo è proprio perché sono un padre e avverto il dovere di offrire ai miei figli un mondo migliore”. E in effetti, a distanza di una settimana, quando Arash descriverà la soddisfazione con cui la figlia riduce in coriandoli l’effigie dell’ayatollah Khamenei, quando nello stesso fiato tratteggerà la scena in cui la ragazza, tra gli applausi delle compagne, si pianta davanti alla cattedra e annuncia che nessuna allieva accetterà più di studiare con l’immagine del diavolo davanti agli occhi, Zar interverrà a più riprese per lodare la figlia e puntualizzare: “Le hanno cresciute quelle come me, queste ragazze coraggiose”.
Quelle come Zar, quelli come Arash, il nodo in fondo è sempre questo, il modo in cui vedono il mondo, il modo in cui il mondo li guarda e di contro il modo in cui sognano di essere guardati. Un cortocircuito.
“Siamo nemici di questo regime corrotto, privo di cuore e altrettanto privo di buonsenso. Parlo al plurale perché non sono solo io a pensarlo, è un sentimento che condividono molti dei miei commilitoni, e tanti altri amici che mi sono cresciuti accanto – prorompe Arash nel cuore della notte, la voce pacata insolitamente tonante e gonfia d’entusiasmo – Questo sistema non può durare, investono tanta di quell’energia, tanti di quei soldi nella repressione, eppure trascorrono le settimane e la gente continua a presentarsi per strada”. Scoppia d’ammirazione Arash, per i giovani che sono migliori di quelli della sua generazione, per la creatività che hanno saputo regalare alla protesta (“noi iraniani siamo tutti un po’ artisti, tutti un po’ poeti”, dirà durante un’altra chiacchierata), per le ragazze (“le più belle del mondo”) e il portamento che sfoggiano quando camminano a capo scoperto e automaticamente raddrizzano le spalle.
Ma arriveranno anche momenti in cui Arash faticherà a infilare una parola dopo l’altra. “Sono in allerta 24 ore su 24, non mangio, non dormo. Oggi non posso”. “Sta tutto precipitando – si sfoga svariati giorni dopo – Il 95 per cento degli iraniani non li vuole, se si tenesse un referendum, i mullah dovrebbero fuggire a gambe levate, ma purtroppo non se ne vanno ed è tutto così caotico. Sento sempre invocare l’idea di uno sciopero, uno sciopero generale a oltranza, ma io mi chiedo come fa a sopravvivere la povera gente se incrocia le braccia e poi non viene pagata? E intanto i ragazzini spuntano dai vicoli e ci sputano in faccia. Ogni volta che posso libero i manifestanti che vengono catturati, ma non sempre ci riesco, sicuramente non ci riesco tutte le volte che vorrei, e dopo continuo a chiedermi che fine faranno. Questo pensiero non mi lascia mai, perché ho assistito a scene raccapriccianti, scene che voi nemmeno potete immaginare, ma ora scusa, non riesco a parlarne, sono tremendamente stanco”.
Della violenza Arash dirà poco o nulla, sarà un discorso che lo metterà sempre a disagio e in quasi tutte le occasioni lo spingerà a tagliare corto. A parlare di violenza sarà soprattutto Zar, ma in questo caso si tratterà di una brutalità diversa rispetto a quella che non riesce a nominare Arash.
“Hanno accoltellato il marito di una mia amica, è un bassiji anche lui – ci racconta un pomeriggio di novembre – Quando lo hanno portato in ospedale gli altri pazienti hanno iniziato a maledirlo, era tra la vita e la morte e gli urlavano: assassino!”. Zar ha paura, teme che qualcosa di simile possa succedere anche ad Arash. “Mio marito è armato, ma la verità è che quelli come noi sono senza difese. Spogliano i bassiji, li picchiano, danno fuoco alle basi. Quando entriamo dentro a un negozio si azzittiscono tutti. L’altro giorno sulla vetrina di un alimentari ho letto un cartello con su scritto: QUI PASDARAN E BASSIJI NON SONO GRADITI. Arash dice che esagero, ma cosa può saperne lui, che in fondo non c’è mai, di quello che ci sibilano dietro? Ci odiano anche se noi tifiamo per loro, ci odiano, non resta altro da dire, questo e il fatto che non saremo mai più al sicuro”.
E dire che è stato proprio il desiderio di approdare a una vita più sicura che ha spinto Arash ad arruolarsi nel corpo dei bassiji, la Sazeman-e-bassij-e-mostazafan, letteralmente Organizzazione per la mobilitazione degli oppressi. La prima persona a suggerirglielo è un amico d’infanzia che si iscrive poco prima di lui. “Era un ragazzo che frequentava la moschea, un tizio gli si è avvicinato e gli ha domandato se fosse un bassiji, lui ha scosso la testa e l’uomo gli ha risposto che era un vero peccato. Due giorni dopo, il mio amico ha riempito un formulario ed è diventato uno di loro”. Arash sottolinea che il suo approdo nella milizia è stato determinato da quell’incontro, ma concede che la possibilità lo aveva già solleticato. “L’ideologia nel mio caso non ha giocato alcun ruolo. Io miravo ad altro, a quei corsi ho sempre sonnecchiato”. Perché quelli della prima militanza di Arash non sono più gli anni della guerra, quando i bassiji saltavano sulle mine irachene con la chiave del paradiso stretta attorno al collo; il suo è il tempo della scalata arrembante di un altro bassiji, l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, e in quel momento per un ragazzo umile, di belle speranze e senza troppa puzza sotto il naso, il corpo degli oppressi è una grande occasione di riscatto. “Ci portavano a fare sport, d’estate andavamo nei boschi e dormivamo in tenda, eravamo tutti ragazzi. Io prima d’allora non avevo mai fatto una vacanza. Di quegli anni ricordo il sapore delle prime sigarette, le risate e il cameratismo con i compagni. Ricordo i tuffi perché prima che me lo insegnassero non sapevo nuotare. Ogni tanto eravamo costretti a sorbirci degli estenuanti seminari, ma avremmo sopportato anche di peggio per ottenere il tesserino”. Con un tesserino da bassiji un ragazzo può ricevere coupon per acquistare cibo e vestiti e ottenere sconti per l’acquisto di biglietti aerei, può accompagnarsi a una ragazza e alla vista della prima volante esibire il documento come una sorta di salvacondotto. Ma il tesserino significa anzitutto poter imboccare una corsia preferenziale per accedere alle università migliori, ridurre la durata del servizio militare, avere un’ottima assistenza sanitaria, garantirsi un lavoro sicuro prima e moltiplicare le possibilità di una promozione dopo, accendere un mutuo a un tasso agevolato. Perché non tutti i bassiji sono bassiji a tempo pieno, molti come Arash sono bassiji dormienti che vivono la propria vita, sfruttano le opportunità offerte dall’appartenenza al corpo e sperano che il regime non abbia bisogno di loro.
Stando a un rapporto interno del Centro di ricerca bassiji, citato da Saeid Golkar nel suo “Captive Society. The Basiji Militia and Social Control in Iran”, nel 2005 il 79 per cento degli iscritti alla milizia dichiarava che i benefici associati al possesso del tesserino avevano influito in modo determinante sulla scelta di aderire al corpo.
“Ci descrivono in blocco, stupidi, arroganti, disonesti, opportunisti, ma siamo un gruppo estremamente disomogeneo. I veri bassiji, quelli che ci credono, sono la minoranza. La maggioranza è un coacervo di ipocriti che si divide in tre gruppi, gente come me che se ne infischia delle cause della Repubblica islamica e pensa solo alla famiglia, gente violenta che si diverte a vedere la paura negli occhi degli altri e non sa resistere al gusto di menare le mani, e altra gente che un momento arresta ragazzi con la maglietta di “Game of Thrones” e un attimo dopo sghignazza vantandosi di non essersi mai perso una puntata della serie”.
La fatica per Arash è anche la sensazione di essere costantemente buttato nel mucchio. “Non conta chi sono, quello che penso, quello che leggo, come mi comporto. Per alcune persone sarò sempre e solo un bassiji”. Prima che la storia di Mahsa Amini rivoluzionasse la sua vita, Arash lavorava in una fabbrica e studiava per il dottorato. All’inizio attorno a lui erano tutti molto sospettosi, si muovevano nervosamente, abbassavano il tono delle voce, come se lui fosse lì per spiarli. “Tre o quattro volte l’anno il mio datore di lavoro organizza delle feste per i dipendenti e le loro famiglie. Le prime volte non ho partecipato, avevo l’impressione che nessuno mi volesse, poi alla fine mi sono fatto coraggio e mi sono presentato, alcuni stavano bevendo e ho notato che versavano il vino dentro ai vasi delle piante. Mi sono avvicinato al direttore della fabbrica e gli ho detto: prendo del succo di melograno. Lui mi ha guardato terrorizzato. Io ho riso, e poi ad alta voce, rivolto a tutti ho aggiunto: ehi potete rilassarvi, mi unirei a voi, ma sono astemio. Da quel giorno è tutto cambiato”. Ma da più di due mesi a questa parte il mondo di Arash non è più lo stesso. “Non ho tempo né per mia moglie né per i miei figli. Mi mancano i libri e i colleghi della fabbrica”. E i Mondiali? “No – sospira Arash – Non mi interessano, non sono dell’umore giusto, sto sempre in giro e sono davvero troppo stanco. Però una cosa l’ho vista e mi è piaciuta: il momento in cui il calciatore americano abbraccia il nostro giocatore”.