il fiore dell'Iran
Con la sua poesia, Forough Farrokhzad ha anticipato le ragioni delle proteste di oggi
Ha detto il desiderio di libertà delle donne a Teheran, prima della Rivoluzione e del velo. Fu anche attrice – la nouvelle vague del cinema iraniano inizia con lei – e documentarista: anche così si raccontano la luce e l’ombra del mondo
“Sento che il tempo è trascorso / sento che è un istante la mia parte / tra le pagine di storia”, questi versi, e quelli che seguono, sono di una delle voci più grandi della poesia iraniana (e non solo) del Novecento, Forough Farrokhzad, nella traduzione di Domenico Ingenito e di Faezeh Mardani. In Italia è stata pubblicata da Aliberti, Orientexpress e Condò. Cinque raccolte di versi, banditi per decenni nel suo paese e tuttavia venduti nei retrobottega delle librerie. La prima raccolta, del 1952, è “Prigioniera”, l’ultima postuma, “Crediamo soltanto all’inizio della stagione fredda”. Un percorso breve e profondo che ha lasciato un’impronta che non è soltanto letteraria.
Coi libri funziona come con le persone: si incontrano, ci capitano, e mai per caso, anche se così sembra. E proprio come le persone, i libri ci parlano, e ci dicono cose che, forse, in un dato momento sono esattamente quelle che abbiamo bisogno di sentire, di ricordare, considerare. Ho incontrato Forough Farrokhzad una sera a cena, in casa di conoscenti. Una sera di vento arrabbiato in cui fumare sul balcone diventa uno strazio. Una di quelle cene moderatamente noiose perché nessuna conversazione riesce ad arrivare più in là di un paio di frasi di circostanza, e alla fine si cercano vie di fuga con discrezione. La trovai, lei e la fuga discreta, nella libreria che stava nell’elegante sottoscala di casa. Notai il libro forse perché, a differenza degli altri, era poggiato sopra i volumi di un’enciclopedia giuridica, immagino stesse dove non doveva ma nel posto giusto per la mia attenzione. L’ho aperto a caso, perché così si fa con la poesia, si apre a caso, come il Vangelo, e ricordo: “I miei occhi, l’esperienza densa del buio”, ho continuato a leggere a saltare, e da quella sera una nuova piccola luce si è insinuata fra “le nuvole dei miei lunghi pensieri”.
Si muove per fede: spera in determinate cose e agisce per conquistarle, a dispetto delle polemiche che hanno caratterizzato la sua vita
C’è nell’animo, e in ogni fibra, di questa poetessa il desiderio urgente di vivere il sogno al di là delle frustrazioni che la vita ci carica addosso, “io m’innalzo sulla terra”. Si muove per fede, nel senso che spera in determinate cose e agisce – anche sbagliando, forse, e succede quando si agisce – per conquistarle, a dispetto dell’onda di scandali e polemiche che ha caratterizzato la sua esistenza. “Ti amo, desiderio impossibile”. Era una donna di intenso fascino, con lo sguardo attento e lontano che pare sempre guardare verso un qualche altrove. “Tutto il mio essere è un canto oscuro”. Una zingara le predisse un destino di amori e di morte violenta. “Sono con te, e del dolore non resta paura, / se non il dolore della mia gioia”. Figlia di un militare e di una casalinga. Un’educazione rigida e una famiglia numerosa. Una personalità determinata, sensuale e indipendente, refrattaria alle costrizioni, “io sono della stirpe degli alberi, / respirare aria stagnante mi deprime”. Da bambina non temeva le punizioni dei genitori, batteva i piedi e gridava: “Ho fatto bene. Ho fatto bene e lo rifarò ancora!”, da adulta non teme gli spietati giudizi morali della società in cui vive. “Io sono quella candela che, con il dolore del proprio cuore, / illumina una rovina”.
Forough Farrokhzad, che fu anche attrice (recitò, fra le altre cose, nel “Gabbiano” di Cechov, e in “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello), cineasta – la nouvelle vague del cinema iraniano inizia con lei – e documentarista perché anche così si raccontano la luce e l’ombra del mondo, è nata negli anni Trenta del Novecento, in Iran, in quel pezzo di mondo che era ancora la Persia, “in una stanza grande quanto una solitudine”. Luogo debordante di storia e di disastri, “vengo dal paese delle bambole / sotto l’ombra di alberi di carta / nel giardino di un libro illustrato”, dove ancora oggi si muore tragicamente per un velo portato in maniera non corretta. “La donna che divenne polvere nel sudario dell’attesa e del pudore”. Dove le donne – capelli al vento – sfidano la morte per le strade per rivendicare una vita libera, una vita che sia vita. “Il mio cuore / grande quanto un amore / attende i pretesti semplici della sua felicità”.
Un mondo che oggi torna prepotentemente nella nostra cronaca quotidiana e ci amareggia e ci indigna ma forse non abbastanza. “Dissi a mia madre: è finita / dissi, accade sempre prima di pensarci”. Finisce nel ’67, in un incidente stradale, la cui dinamica resta poco chiara, l’esistenza di questa poetessa, alle quattro del pomeriggio, “… Il tempo è trascorso, / il tempo è trascorso e l’orologio ha suonato quattro volte / quattro volte”. Pare fosse in Iran per una visita alla madre, “saluterò mia madre, che viveva in uno specchio / e aveva il volto della mia vecchiaia”. Trentadue anni vissuti intensamente e impetuosamente. “Abbiamo trovato l’eterno nell’attimo sconfinato / in cui due soli si fissano incantati”. Ha lasciato un profondo segno nella storia letteraria e nella vita di chi resta. Ha saputo fare la differenza, se questa differenza sta in quello che si porta e in quello che si lascia. Nei suoi versi ogni cosa si fa presagio e possibilità.
Tutto nella sua scrittura è bisogno di rottura e bisogno di abbraccio. “Forse verità erano quelle due giovani mani, / sotterrate dal peso della neve senza sosta”. Ancora oggi, nel giorno della sua morte, intellettuali e tanti giovani si raccolgono intorno alla sua tomba – a nord di Teheran, ai piedi di monti bianchi di neve – e leggono le sue poesie. “Io parlo dall’estremità della notte / dall’estremità della tenebra / Se verrai a casa mia, oh mio caro / portami una luce / e una piccola finestra”. Sfida il tempo e il regime – che la definisce poetessa del peccato – con una scrittura intensa e spregiudicata, “peccai un peccato pieno di piacere, / in un abbraccio che era caldo e ardente”, scrive la passione e la liberazione, fisica e mentale. “Per te la mia solitudine è presa dal silenzio / e rappreso il mio corpo nell’odore dell’amplesso”. Racconta con limpidezza e slancio quello che ancora oggi è tempo presente, la condizione delle donne iraniane (e purtroppo non solo la loro) intrappolate nel ruolo di mogli e madri, prive del diritto di godere liberamente del proprio corpo. “Il giorno è una distesa / che le limitate idee del verme del giornale non racchiudono”. Non ce la faceva ad abituarsi alla gabbia, non si arrendeva alle sbarre. “Non parlo di un brusio atterrito nel buio / parlo del giorno e delle finestre aperte / e dell’aria fresca / e delle cose inutili da ardere nel fuoco”. Si sposa a 17 anni, nel 1950, con un lontano cugino, vignettista, tradizionalista e insofferente ai bisogni di libertà della moglie che, a un certo punto, si sente costretta a scegliere fra la vita e la poesia, “perché fermarmi, perché? / Gli uccelli sono partiti in cerca di una direzione azzurra. / L’orizzonte è verticale”, sceglie la poesia – questa preghiera laica, questo silenzioso urlo che contiene le voci e i bisogni di tante esistenze, ieri e oggi – divorzia nel 1955 e perde per questa ragione il diritto di vedere il figlio. “O cielo, se un giorno volessi / da questa muta gabbia prendere il volo, / che direi agli occhi in lacrime del bambino: / perdonami, io sono un uccello in cattività”. L’allontanamento dal figlio e una serie di drammi famigliari e sociali diventano un terremoto per la sua psiche. Tenta tre volte il suicidio. “E morire nella tristezza di una voce che mi dice / amo, amo le tue mani”.
Forough Farrokhzad si rialza e fa della libertà il pilastro della sua scrittura e della sua vita, diventa un elemento di rottura da considerare possibile per chi lotta in un limbo di negazioni. La sua poesia ha la grandezza della semplicità, è fatta di parole quotidiane, restituisce significato e forza proprio a quelle parole logorate dall’uso e dimenticate nonostante siano il nostro lessico quotidiano.
A Pesaro, nel ’66, conosce Bertolucci. La conversazione verteva sul rapporto fra gli intellettuali persiani e il popolo
Porta una luce e un’aria nuova nella poesia, porta altre parole, e quindi altre visioni e respiro, con le traduzioni in persiano dei testi di Henry Miller, Bertolt Brecht e George Bernard Shaw. “Sceglierei il piacere nero e doloroso / di un peccaminoso abbraccio”. Ama molto, “capii che dovevo amare, / amare, amare follemente”, e viaggia molto in Europa. Il regista e scrittore Ebrahim Golestan, conosciuto nel 1958, – “ti voglio, ti voglio, anima mia / ti voglio, amore mio pazzo” – ha rappresentato per lei l’intensità della passione e, chissà, per certi aspetti quel fuoco che ha acceso il suo canto, quella finestra di cui diceva di avere bisogno, “una finestra per vedere / una finestra per sentire / mi basta una finestra”. Del suo soggiorno in Italia, nel 1956, rimane il testo “In un’altra terra”, curato da Marzieh Khani e pubblicato da Le Cáriti. A Pesaro, nel 1966, ha conosciuto Bernardo Bertolucci che realizzò un documentario su uno dei loro incontri.
La conversazione fra i due – in francese e persiano – verteva sul rapporto fra gli intellettuali persiani e il popolo, sulla situazione socio-politica dell’Iran alla fine degli anni Sessanta e sul documentario della Farrokhzad, “La casa è nera”, del 1962, un viaggio nella sofferenza, uno sguardo lucido su ciò che è difficile guardare, un pluripremiato capolavoro divenuto fonte di ispirazione stilistica per molti cineasti, in cui la tragica emarginazione dei lebbrosi a Tabriz diventa metafora della miseria della condizione umana e della ghettizzazione che, in un modo o nell’altro, ci include sempre tutti. “E chiamo alla mia trincea i morti / a dire che si è vivi senza salvarsi / senz’altra morte che la propria / insieme a ogni morte”. Venti minuti di immagini di ineluttabile dolore, di poesia, di passi tratti dall’Antico Testamento e dal Corano. Un messaggio di speranza si leva da quel buio dove la speranza è assente. Rimane la rara sensibilità della bellezza che si fa sguardo che si avvicina e osserva, e rimane un bambino, figlio di lebbrosi, adottato dalla poetessa, “la vita forse / è un bimbo che torna da scuola”.
A Bertolucci, la Farrokhzad affida un appello in favore di un gruppo di persone accusate di volere attentare alla vita di Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo scià di Persia; la poetessa aveva 18 anni quando quest’ultimo aveva assunto il controllo assoluto dello stato. La diffusione della notizia, che si trattava di persone condannate a morte per ragioni politiche, fece parecchio scalpore nell’opinione pubblica fuori dai confini dello stato, e quella condanna fu commutata in ergastolo. La poesia sa fare anche questo: resiste e lotta senza averne l’aria, dice abissi, mostra orizzonti larghi e scrolla animi, pur nella fragile brevità dell’essere, “quando la mia vita ormai non era più nulla, / nulla se non il tic tac di un orologio”. E’ una persona che non si arrende allo stato delle cose, tenta di fare la sua parte: nel 1963 nasconde in casa un attivista ricercato e difende gli studenti universitari durante gli scontri con la polizia. E’ tratta in arresto, e stando alle testimonianze, sviene perché le viene sbattuta la testa contro un muro. “La mia parte / è scendere una rampa di scale abbandonate”. Un poeta, o chicchessia, non cambia le sorti del mondo. Nessuno di noi lo fa, ma c’è sempre la possibilità di un risveglio, l’apertura di uno spiraglio da cui passa la presa di coscienza, un tentativo di elevazione verso un assoluto possibile che può condurre a percorsi più umanamente vivibili, a esistenze meno cancellate e asfissiate da costrizioni varie ed eventuali. “E’ preso il cuore da una preghiera ardente / in Dio io cerco la via che mi salvi”.
Ricorre il fiore rosso nei suoi versi, “il timido sguardo di un fiore senza nome”, prima che il rosso diventasse il colore del no alla violenza sulle donne
Ricorre il fiore rosso nei versi di questa voce così incisiva, “il timido sguardo di un fiore senza nome”, prima ancora che il rosso diventasse il colore col quale si dice di no alla violenza contro le donne. Alcune persone sanno essere, anche a loro insaputa, un sorso d’acqua nel mezzo di tanta sete. E per quel sorso d’acqua che vivifica occorre sempre ringraziare il cielo che ci sta addosso.
Forough Farrokhzad vede la bruttura del mondo e crede che l’uomo sia un risolutore di problemi. E’ fonte di ispirazione per artisti e gente comune, è l’emblema dei diritti negati alle donne, è il simbolo del desiderio di liberazione degli iraniani e di coloro che vivono in costrizione. Alessandro Magno in dodici anni conquistò l’impero persiano. Forough Farrokhzad, in un arco temporale simile, ha conquistato l’Iran e lasciato un’impronta nella mente di chi si specchia nelle sue parole. I versi di questa poetessa, “e i libri e il boato sul mondo”, che sembrano il diario di ognuno di noi, “mille i moti sedati che vivono in loro, / e mille i lamenti agitati / come spuma che fugge / sul volto contratto degli stagni”, che cinquant’anni fa ha provato a togliere il velo a tutte le donne iraniane e non soltanto a loro, che ha tentato il volo, ha mostrato quello che stava confinato fra le mura di casa, celato nelle stanze di palazzo, “con quali ali si potrà / sfuggire alla rovina e al bruciore dei giorni? / Con quali lacrime si potrà stendere un velo / sullo sguardo stupefatto del tempo?”, ci ricordano, oggi più che mai, il valore di ogni cosa che dà valore alla vita, “ed è così / che qualcuno muore / e qualcuno resta”.
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