problemi di immagine
L'assenza di Putin. La fisicità una volta esaltata ora è nascosta
Non appare più in pubblico e si mostra via monitor. Come il Covid e la guerra hanno fatto sparire il corpo dello Zar
La notizia inizialmente era passata più o meno inosservata sui media stranieri: secondo il giornale RBK, quest’anno non si sarebbe tenuta la “Linea diretta” di Vladimir Putin. La conferma è arrivata il 14 dicembre, e sarebbe legata, secondo Pyotr Kozlov, cronista del Moscow Times, al timore di possibili attacchi ucraini prima del tradizionale appuntamento in cui dal 2010 il presidente russo risponde alle domande dei giornalisti. Un’ulteriore sortita simile alle azioni condotte nelle settimane scorse presso le basi aeree di Engels e Dyagilevo, situate a centinaia di chilometri dal confine con l’Ucraina, sarebbe stata impossibile da ignorare nel corso delle ore dedicate da Putin ai cronisti.
Anche se si tratta di un evento organizzato nei minimi particolari, con interventi preparati e approvati, il probabile mancato svolgimento conferma un elemento emerso in questi mesi di guerra: Putin è restio a mostrarsi in pubblico se non ha il controllo completo della situazione ed evita occasioni di possibile confronto. Certo, il presidente è intervenuto in occasione dei due concerti svoltisi allo stadio Luzhniki il 18 marzo e sulla Piazza Rossa il 30 settembre, ma si è trattato di comizi, una modalità di comunicazione dall’alto in basso con una platea in gran parte cooptata; anche la fitta agenda di impegni del Cremlino delle ultime due settimane, con il leader a presiedere consessi di ogni tipo, dal Consiglio presidenziale per i diritti umani a quello per lo sviluppo strategico, risulta essere costruita con appuntamenti dove non vi è alcuna possibilità di sorprese o domande scomode.
Le videoconferenze, nei materiali del sito ufficiale del Cremlino, si svolgono sempre con Putin seduto nel suo studio davanti a uno schermo abbastanza grande, dove si alternano gli interlocutori. Anche incontri prima lasciati a ministri e funzionari, come l’inaugurazione di una serie di nuove infrastrutture regionali, vengono presenziati dal presidente in formato online. Notizie volte a eliminare dalla discussione pubblica le difficoltà dell’“operazione speciale militare”, a cui Putin si riferisce ultimamente solo nell’ambito delle sue dichiarazioni sul nuovo ordine da costruire dopo la sconfitta dell’egemonia statunitense e la battaglia contro il cosiddetto Occidente collettivo, portatore di valori definiti satanici. Discorsi e dichiarazioni da recitare, però, a un uditorio ristretto e fidato: i tempi non sono favorevoli per i bagni di folla, si sussurra nei corridoi dell’Amministrazione presidenziale, probabilmente con qualche ragione da spingere ad annullare persino la presenza del leader russo alla partita notturna di hockey che da qualche anno si svolge durante il periodo festivo sulla pista da pattinaggio della Piazza Rossa. Anche l’annuale relazione all’Assemblea federale, ovvero la Duma e il Consiglio della Federazione riunite in sessione congiunta, è rinviata a data da destinarsi.
Scelte che risaltano se si tiene conto di come il fenomeno Vladimir Putin sia stato costruito sin dal 1999 attraverso l’immagine dell’uomo deciso, forte, in grado di reggere qualsiasi sfida, frutto di un attento studio degli umori e delle aspettative dei russi effettuato dall’Amministrazione presidenziale alle prese con la successione a Boris Eltsin. Ha più volte raccontato Gleb Pavlovsky, figura un po’ spin doctor, un po’ stratega, un po’ intellettuale e consulente di rilievo del Cremlino da metà anni Novanta fino al 2011, che la decisione di puntare su quel pietroburghese proveniente dal Kgb venne presa dopo un sondaggio su quale personaggio cinematografico i russi avrebbero visto bene come presidente: al primo posto, Pietro il Grande, interpretato dall’attore Nikolaj Simonov nell’omonimo film del 1937; dietro di lui il protagonista di una serie Tv di culto del 1973, la spia sovietica Maksim Isayev, meglio conosciuta come il gerarca nazista Max Otto von Stierlitz, impersonato da Vyacheslav Tikhonov.
Stierlitz occupava nell’immaginario tardo sovietico un posto particolare, al centro di numerose barzellette, ma alla fine degli anni Novanta non era più la leggenda comica costruita sul personaggio di fantasia a essere al centro della sua popolarità, quanto piuttosto l’aura di uomo affidabile, coraggioso, deciso, pronto a ogni sacrificio per la propria patria. Putin, da poco diventato direttore dell’Fsb, rispondeva all’identikit del sondaggio, e la rapida ascesa ai vertici della Federazione russa venne accompagnata da una campagna dove le principali tecniche pubblicitarie, già utilizzate per la rielezione di Eltsin nel 1996, riuscirono a creare l’immagine del leader rassicurante e al tempo stesso sprezzante del pericolo sul profilo di un ex agente di medio livello. La presenza mediatica del nuovo presidente diventa una costante, e criticarlo sempre più difficile, persino riderci su: il popolare programma satirico Kukly, dove si sbeffeggiano politici e personalità in vista rappresentate da pupazzi grotteschi, chiude nel 2002, perché con Putin non si poteva e non si può scherzare.
Persino i tentativi di ironizzare vengono capovolti, in un sapiente utilizzo dei tempi e dei temi della comunicazione, come accaduto con la canzone pop “Takogo kak Putin” (Uno come Putin), dove voci femminili sospiravano all’idea di trovare un partner nel pieno delle forze, fedele e più o meno astemio, proprio come il presidente. Uscita nel 2002, due anni dopo diventa l’inno informale della campagna per il secondo mandato di Putin, che aveva dichiarato di essere “divertito” dalla canzone. Un particolare importante per capire i cardini attorno a cui viene costruito il profilo pubblico putiniano, perché nella hit d’inizio anni Duemila si elencano proprio quelle virtù attribuite a Vladimir Vladimirovich, iniziando a operare anche un ulteriore slittamento dell’immagine presidenziale verso una fisicità esibita davanti alle telecamere e agli obiettivi fotografici. Si riempiono così i media di ritratti di Putin judoka o impegnato in una gara di sambo, la popolare arte marziale russa, a torso nudo mentre pesca o è a cavallo, sempre in buona forma per essere una persona di mezza età.
Le giornate del presidente nella taiga assieme al ministro della Difesa Sergei Shoigu, del cui contenuto nulla si sa, di solito in concomitanza con il compleanno del primo, anch’esse vengono immortalate a beneficio di stampa e tv. Il messaggio appare chiaro, Putin non è un politico come gli altri, cura il proprio corpo, non è bolso e flaccido, e quando viene ritratto con Dmitry Medvedev in palestra o a giocare a badminton, sembra essere il trainer dell’allora premier, impegnato a introdurlo alla necessità di praticare sport. Questa fisicità veniva e ancora oggi viene presa di mira in tantissimi meme sulla Runet, il segmento russofono del web, ma nella logica che plasma il potere del Cremlino vale il nostrano bene o male purché se ne parli, l’importante è occupare lo spazio mediatico.
Un assunto valido però fino a quando vi è la possibilità di avere il controllo della situazione, senza contraddittorio, e che ha funzionato fino alla pandemia del 2020, quando, nonostante l’adozione di misure alquanto timide nel fronteggiare il coronavirus in Russia, il Cremlino è diventato un luogo ancor più difficilmente accessibile, per evitare il contagio del presidente. Per la partecipazione ai principali eventi e incontri con Putin giornalisti e funzionari si sono dovuti sottoporre a lunghi periodi di quarantena preventiva, ancor più severi per i piloti e il personale medico assegnato al presidente. Nemmeno le quattro dosi di vaccino hanno alleggerito le restrizioni, ancora obbligatorie, e strutture alberghiere continuano a essere utilizzate per l’isolamento dei partecipanti in occasione delle cerimonie che prevedono contatti ravvicinati con il leader, come successo ai 400 invitati alla parata del 9 maggio 2022, tenuti chiusi in due lussuosi hotel di Mosca per quindici giorni.
Per un potere che ha puntato sulla fisicità si tratta di dover ridefinire gli assiomi dell’immagine, perché emerge la paura (legittima, sia chiaro) della malattia, letta come sconfitta, e Putin, per definizione, non può perdere. Le soluzioni adottate non sembrano in grado di risolvere questa contraddizione, ma contribuiscono ad acuirla, come dimostrano le reazioni agli incontri del presidente con capi di stato e ministri attorno a lunghissimi tavoli, alternati invece a strette di mano da vicino con Xi Jinping, dichiarazioni alla stampa assieme a Erdoğan o a Lukashenko, e non è chiaro perché Putin appaia assieme a loro quando si tiene a distanza da Shoigu. Si potrebbe leggere in queste scelte una nuova idea di sacralità della figura del leader russo, la vicinanza alla sua persona presentata come privilegio per pochi, ma appare poco probabile un ragionamento simile, perché implicherebbe un rovesciamento totale della rappresentazione costruita in più di vent’anni al potere.
Il vertice di Bali del G20, dove Putin era assente, conferma questa difficoltà del culto della fisicità del Cremlino. Già nel summit di Samarcanda il presidente si era trovato a dover ascoltare le critiche del premier indiano Narendra Modri e a fare i conti con la freddezza cinese. E l’appuntamento indonesiano, dove vi erano i leader dei principali paesi occidentali, non si presentava meglio. L’atteggiamento adottato da Mosca crea però non l’impressione di uno splendido isolamento basato su una supposta superiorità morale, ma è spia di una fragilità profonda, di una incapacità di reggere il confronto, di affrontare critiche e sfide, di saper come gestire scontri e dibattiti. L’assenza a Bali parla dell’impossibilità di accettare la presenza di opinioni diverse e di far i conti con esse, e si risolve in una sonora sconfitta diplomatica. Putin appare non come il capo di stato vincente e infallibile a cui inneggiano i media e la politica di Mosca (esemplificativa in tal senso è l’affermazione di qualche anno fa del presidente della Duma Vyacheslav Volodin, “senza Putin non c’è la Russia”), ma un presidente prigioniero della propria immagine, che non è in grado di uscir fuori da un sistema dove si deve vincere sempre, a costo di crimini, truffe e altre amenità. E a indebolire ancor di più questa rappresentazione è come appare Volodymyr Zelensky in questi mesi: certo, anche qui si tratta di un’immagine costruita, e in più il lungo percorso televisivo e cinematografico del presidente ucraino, uomo di spettacolo, aiuta, ma resta il dato di un leader che si reca nei centri urbani riconquistati all’esercito russo, che cerca il contatto con la gente, partecipa, anche quando contestato, a summit e incontri internazionali.
Non vi è paura di apparire, forse in questo modo rispondendo anche alla propaganda di Mosca nelle prime settimane di guerra, che voleva Zelensky in fuga o rinchiuso in un bunker in Polonia o chissà dove: l’ex comico diventato prima presidente e poi simbolo di un intero paese è al suo posto e incontra la sua gente. Anche la differenza d’età gioca a favore del leader ucraino, e diventa difficile rispondere in termini di fisicità per un settantenne quale oggi è Putin. Forse non è un caso che “Servitore del popolo”, la serie televisiva che in un certo senso ha lanciato la corsa di Zelensky a presidente dell’Ucraina, sia stata sospesa in Russia dopo sole tre puntate trasmesse dal canale TNT a fine 2019, da cui in una era stata tagliata una scena dove si scherzava su Putin: non vi possono essere concorrenti per il Cremlino, nemmeno in un serial.