Il fronte sud di Assad
Il terzo califfo è morto, ma l'Isis attende che la crisi umanitaria in Siria faccia il suo corso
Il leader dello Stato islamico ucciso a Daraa e il reclutamento dei bambini soldato, affamati dalla crisi alimentare. A Suwayda si torna a manifestare contro il regime
Nell’ultima settimana in Siria si sono verificati due avvenimenti che fino a qualche anno fa avrebbero suscitato grande attenzione mediatica. Invece, è successo che la morte del terzo califfo dello Stato islamico e le proteste contro Assad, le prime dopo anni in una cittadina del sud controllata dal regime, sono passate quasi inosservate. L’uccisione di Abu al Hassan al Hashimi al Quraishi è stata annunciata dal portavoce dell’organizzazione terroristica lo scorso 30 novembre. Il comunicato era scarno, non chiariva le circostanze della morte, ma indicava solamente il nome del successore, Abu al Hussein al Husseini al Quraishi. La notizia è stata confermata qualche ora dopo dal Centcom, il Comando centrale delle Forze armate degli Stati Uniti, che però ha negato di avere avuto qualsiasi ruolo nell’operazione, come invece era avvenuto con gli altri due califfi, Abu Bakr al Baghdadi e Abu Ibrahim al Hashimi al Quraishi. L’operazione, che risale al 15 ottobre scorso, secondo il Centcom sarebbe stata condotta dall’Esercito libero siriano (Fsa). Altra differenza rispetto alle incursioni che portarono all’eliminazione dei primi due leader di Daesh è l’area geografica: non più il governatorato di Idlib, nel nord-ovest del paese, ma il sud, per la precisione a Jassem, un sobborgo di Daraa.
Solo dopo qualche giorno si è arrivati a una ricostruzione dei fatti più precisa. Prima di tutto, si è scoperto che il comunicato degli americani era equivoco. Il Fsa a cui si riferivano non era quello delle milizie che operano insieme agli statunitensi nella base di al Tanf, nel sud-est del paese. Si trattava invece di un gruppo armato che gli americani avevano sostenuto fino al 2017. L’anno successivo, Washington aveva rotto l’“alleanza”, spingendo i ribelli a riconciliarsi con il regime di Bashar el Assad e indirettamente con i russi, sponsor di Damasco. Parte di questi combattenti si erano quindi spostati a sud dove, di tanto in tanto, svolgevano operazioni militari contro altri ribelli insieme all’esercito del regime. Non il 15 ottobre scorso, quando avrebbero agito invece in autonomia contro una cellula dello Stato islamico proprio a Jassem. Sarebbe stato allora che il califfo al Hassan, come è successo anche ai suoi predecessori, avrebbe deciso di fare saltare in aria il rifugio in cui era finito in trappola, pur di non essere arrestato.
Secondo quanto riferito da alcune fonti locali a una giornalista, Elizabeth Tsurkov, il Fsa di Daraa non sapeva di avere ucciso il terzo califfo. Solo dopo avere raccolto tracce del Dna e averle consegnate agli americani – e questa è un’altra notizia, perché si credeva che ormai avessero perso ogni rapporto con i ribelli del sud – è arrivata la conferma della morte di al Hassan. Per avere un campione di Dna con cui confrontare i resti, è probabile che il terzo califfo, cittadino iracheno, fosse già finito sotto la custodia degli americani, probabilmente durante la guerra in Iraq. La sua morte ora dà nuovo vigore all’impegno americano contro lo Stato islamico in Siria e mette in ulteriore difficoltà l’organizzazione terroristica, ma non va spacciata per la sconfitta finale del Califfato. A poche ore dall’annuncio del nuovo leader, al Hussein, decine di gruppi armati dello Stato islamico, dalla Nigeria al Sahel fino all’Egitto e alla Siria, hanno postato foto del bay’ha – del loro giuramento al califfo. In molte di queste comparivano decine di bambini con in braccio un kalashnikov, le nuove reclute vendute alla causa del jihad in cambio di soldi e cibo. Mentre ci si aspetta una ritorsione da parte di Daesh, nel nord della Siria la minaccia di un intervento militare turco mette in pericolo la guerra ai terroristi. Domenica, il leader delle Forze di difesa democratiche, Mazloum Abdi, ha rivolto un appello agli alleati americani dalle colonne del Washington Post, affinché agissero con più decisione per dissuadere Erdogan.
Il secondo fatto rilevante è avvenuto sempre nel sud della Siria, a Suwayda. E’ una cittadina druza, in un’area controllata dal regime e interessata in modo marginale dai combattimenti. Domenica, diverse decine di persone sono scese in strada protestando contro il regime, accusato del deterioramento della situazione economica diventata insostenibile per la carenza di benzina e beni di prima necessità. I manifestanti hanno urlato slogan contro le autorità e hanno accusato i militari di usare la benzina per i loro mezzi lasciando senza i cittadini. Si sono riuniti davanti al palazzo del governo e gli hanno dato fuoco, stracciando le foto di Assad, finché le forze di sicurezza non hanno sparato uccidendo un manifestante. E’ presto per sapere dove possano portare queste proteste, ma dimostrano come l’aumento generale dei prezzi possa rendere ancora più insostenibile per la popolazione sopportare uno stato autoritario e corrotto come quello di Assad. Sullo sfondo resta lo Stato islamico, che non aspetta altro per fare proseliti.