LaPresse

Un lungo viaggio

La marcia di Rahul Gandhi per rilanciarsi e salvare l'India dalla deriva di Modi

Carlo Buldrini

Due mesi e mezzo di cammino sotto il sole per una gigantesca iniziativa che non ha precedenti nella storia politica indiana. Il leader del Partito del Congresso cerca di accreditarsi come perno di un’alleanza di tutti i partiti da opporre al premier, in un paese pieno di fratture dove a rischiare è la democrazia

Un piccolo drappello di uomini marcia spedito. Indossano tutti un kurta bianco e il Gandhi cap, un cappello a bustina di tessuto di khadi, l’abbigliamento tipico dei militanti del Partito del Congresso. L’uomo al centro del gruppo tiene in mano una lunga asta con appesa la bandiera tricolore indiana. Sopraggiungono, quasi di corsa, i componenti di una banda musicale. Piatti, tamburi e trombe emettono il suono sguaiato di tutte le bande indiane. Dietro, in lontananza, si scorge un folto gruppo di persone. Gridano slogan. E’ mattina presto. Il paesaggio tutto attorno è piatto, segnato dagli alti alberi di tamarindo. Ai bordi della strada ci sono solo gruppi di donne che guardano passare la sfilata. La lunga processione raggiunge la periferia della città di Nanded, nello stato del Maharashtra. La disposizione del corteo è adesso cambiata. Al centro della prima fila c’è Rahul Gandhi, il figlio di Rajiv e Sonia, il nipote di Indira, il pronipote di Nehru. La lunga barba che comincia a imbiancare lo fa apparire invecchiato.

 

Due mesi e mezzo di cammino sotto il sole dell’India gli hanno tolto l’aspetto di eterno ragazzo. Il corteo entra in città. Poliziotti in fila indiana e con una lunga corda in mano, camminano ai due lati della strada assieme alla sfilata. Cercano di tenere lontana la folla che si è fatta numerosa. Tutti scattano fotografie con i cellulari. C’è gente anche sui tetti delle case. Un turbinio di bandiere indiane con stampata al centro la “mano”, il simbolo del Partito del Congresso, accoglie i marciatori. Parte uno slogan: “Bharat jodo, nafrat chodo”, uniamo l’India, respingiamo l’odio. Lo ripetono in tanti. Rahul Gandhi saluta con la mano aperta e un sorriso sulle labbra. 

 

Il 7 settembre da Kanyakumari, nella punta meridionale dell’India, ha preso l’avvio questa gigantesca iniziativa del Partito del Congresso a cui è stato dato il nome di “Bharat jodo yatra”. Yatra è un termine sanscrito che significa “viaggio”, “pellegrinaggio” e jodo in lingua hindi vuol dire “mettere assieme”. I militanti del Partito del Congresso hanno deciso di compiere il loro viaggio a piedi. La loro è dunque la “Marcia per unire l’India”. La marcia durerà 150 giorni e percorrerà 3.570 chilometri, da Kanyakumari fino a Srinagar, nel nord del paese. Attraverserà dodici stati indiani e due territori dell’Unione (Delhi e il Jammu e Kashmir) e terminerà alla fine del prossimo mese di gennaio. Rahul Gandhi e gli altri 120 notabili del partito che hanno deciso di percorrere l’intera yatra, cammineranno per 25 chilometri al giorno.

 

E’ la prima volta, nella storia dell’India indipendente, che un partito politico lancia una campagna di queste gigantesche dimensioni. I leader del Congresso ne parlano con toni esaltati. Dice Jairam Ramesh: “La nostra marcia costituisce un punto di svolta nella storia politica dell’India”. Gli fa eco P. Chidambaram: “La yatra è una seconda lotta per la libertà, dopo quella portata avanti contro gli inglesi”. Questa marcia ha due obiettivi non dichiarati: dare a Rahul Gandhi l’immagine di leader politico credibile e rilanciare il Partito del Congresso sul piano nazionale. In India, i tanti denigratori di Rahul gli hanno affibbiato il nomignolo di “Pappu” che, in lingua hindi, significa “sempliciotto”. Per il Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito oggi al potere in India, e per la sua casa madre, il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), l’organizzazione parafascista indiana fondata a Nagpur nel 1925, il figlio di Sonia Gandhi è un personaggio inesperto, immaturo, inaffidabile. Con la Bharat jodo yatra, Rahul Gandhi cerca di scrollarsi di dosso questa nomea e ricostruire la propria immagine politica. Rahul sembra aver riscoperto il concetto religioso hindu di “tapasya” che vuol dire sacrificio, penitenza. Rivolto ai militanti del suo partito ha detto: “Non vinceremo la nostra lotta contro il Bjp e l’Rss prendendo delle scorciatoie. Ci riusciremo solo se saremo pronti a spargere il nostro sudore. Non ho paura di lottare contro le forze di estrema destra. Vi mostrerò come possono essere sconfitte. Lo faremo assieme”. 

 

La yatra di Rahul Gandhi vuole essere una risposta a un’altra yatra avvenuta molti anni prima. Era il 25 settembre 1990 quando dalla città di Somnath, in Gujarat, partì la “Rath yatra”, il viaggio del carro. Il “carro” era il furgone Dmc-Toyota di Lal Krishna Advani, l’allora presidente del Bjp. A Somnath, il punto di partenza della yatra di Advani, c’era un antico tempio hindu saccheggiato nel 1026 da Mahmud di Ghazni e ricostruito quando l’India ottenne l’indipendenza dagli inglesi. Il punto di arrivo del “viaggio del carro” doveva essere Ayodhya, dove sorgeva la Babri Masjid, una moschea costruita – cosa mai provata – sulle rovine di un altro tempio hindu distrutto dai musulmani. Il viaggio di Advani lasciò dietro di sé una lunga scia di sangue. Gli scontri tra hindu e musulmani si fecero sempre più numerosi. La yatra del presidente del Bjp venne fermata. Ma i militanti del partito color zafferano continuarono la loro lotta e il 6 dicembre 1992 rasero al suolo la moschea di Ayodhya. Quella distruzione aprì un nuovo, tragico capitolo della destra nazionalista indiana che dura ancora oggi. Gli estremisti hindu vedono oggi la concreta possibilità di trasformare la Repubblica indiana in un Hindu rashtra, una nazione hindu. Se la yatra di Advani aveva profondamente diviso l’India e aperto le porte all’imposizione di un regime autoritario, Rahul Gandhi, con la sua marcia, vuole al contrario cercare di unire il paese e difendere la sua democrazia.

 

Ma la yatra di Rahul ha anche l’obiettivo di ridare vita al Grand Old Party dell’India, il Partito del Congresso nazionale indiano, fondato nel 1885 e che, da tempo ormai, si trova in uno stato semi-comatoso. Dopo l’ennesima sconfitta in cinque elezioni regionali (Punjab, Uttar Pradesh, Uttarakhand, Manipur e Goa) nel marzo di quest’anno, il processo di esodo dal partito è sembrato inarrestabile. La perdita più dolorosa è stata la fuoriuscita di Ghulam Nabi Azad assieme ad altri sei parlamentari del Jammu e Kashmir. Azad era stato presidente dello Youth Congress, capo del governo (“chief minister”) del Jammu e Kashmir e uno dei consiglieri più fidati di Sonia Gandhi. Dal 2014, da quando Narendra Modi ricopre la carica di primo ministro dell’India, 177 membri del Parlamento nazionale e delle Assemblee legislative dei vari stati indiani hanno lasciato il Congresso per accasarsi presso altri partiti. Per cercare di correre ai ripari il partito, nel mese di maggio di quest’anno, ha organizzato a Udaipur, in Rajasthan, una tre giorni chiamata “Chintan shivir”, una sessione di brainstorming. I numerosi partecipanti sono stati divisi in sei sezioni: organizzazione, politica, giustizia sociale, economia, giovani ed emancipazione.

Le conclusioni organizzative raggiunte non sono state eclatanti: nessuna persona potrà rivestire nel partito la stessa carica per più di cinque anni e il 50 per cento dei posti, a qualsiasi livello, sarà riservato a persone di età inferiore ai cinquanta anni. Tutto qui. Nel corso del brainstorming Rahul ha affermato con forza che il partito deve ritornare tra la gente. “La connessione con gli uomini e le donne del nostro paese deve essere ristabilita”, ha detto. Poi, nel giorno conclusivo della tre giorni di Udaipur, Sonia Gandhi ha annunciato l’imminente partenza della “Bharat jodo yatra”, la Marcia per unire l’India che, ha detto, “servirà a ringiovanire il partito”. 

 

Rahul Gandhi ha più volte ripetuto che la sua yatra non ha un carattere politico. Forse per questo, nei suoi più di 3.500 chilometri di marcia, ha evitato di attraversare due stati, il Gujarat e l’Himachal Pradesh dove si sono appena tenute le elezioni regionali, e dove gli exit poll annunciano l’ennesima vittoria del Bjp. Ma solo un ingenuo può pensare che la Bharat jodo yatra non abbia nulla a che fare con le importanti elezioni politiche nazionali che si terranno all’inizio del 2024. Con la sua yatra, Rahul Gandhi cerca di accreditarsi come perno di un’alleanza di tutti i partiti che si opporranno a Narendra Modi nelle prossime elezioni per la Lok Sabha, il Parlamento nazionale di New Delhi. Per cercare di sconfiggere Modi, con il sistema elettorale indiano del “first past the post”, l’uninominale secco, i partiti politici di opposizione dovranno unirsi tra loro. E’ già successo. Nelle elezioni politiche del 1977, per sconfiggere Indira Gandhi, accusata degli eccessi avvenuti durante l’Emergenza, i partiti di opposizione – tranne i due partiti comunisti – si unirono e diedero vita a un fino allora inesistente “Janata Party”. Indira Gandhi fu sconfitta. Oggi invece, l’unità dei partiti di opposizione appare difficile. Rahul Gandhi, umiliato da Modi nelle elezioni del 2014 e 2019, non è visto dagli altri partiti come un candidato credibile per la carica di primo ministro. C’è chi sostiene così la necessità di formare un Terzo fronte che escluda il partito del Congresso. Ma nelle ultime elezioni politiche del 2019, dietro al Bjp che ha ottenuto il 37,36 per cento di voti e 303 seggi, c’è stato il Partito del Congresso con il 19,49 per cento di voti e 52 seggi. Al terzo posto, quasi a pari merito, sono arrivati il Dmk del Tamil Nadu e l’Aitc del West Bengal rispettivamente con il 4,2 e 4,1 per cento di voti.

 

E’ evidente che costituire un terzo fronte che si opponga al Bjp nelle prossime elezioni nazionali senza il Partito del Congresso vorrebbe dire fare un grosso regalo a Modi. A rendere poi ancora più complicata l’unità di tutti i partiti di opposizione c’è il fatto che, tra i loro leader, sono in molti ad aspirare alla carica di primo ministro nell’eventualità di una sconfitta di Modi. Gli aspiranti, oltre a Rahul Gandhi, sono Mamata Banerjee (All India Trinamool Congress), Nitish Kumar (Janata Dal United), Arvin Kejrival (Aam Aadmi Party), Sharad Pawar (Nationalist Congress Party) e forse altri ancora. Ma tutti questi sono ragionamenti astratti. Narendra Modi è pronto a sbaragliare ancora una volta il campo nelle prossime elezioni politiche nazionali ed essere eletto per la terza volta consecutiva alla carica di primo ministro dell’India. Tutti i pronostici lo danno oggi vincente. E c’è un perché. Sotto la guida di Modi, il sistema politico indiano ha assunto una forma che viene chiamata “autoritarismo elettorale”. Le elezioni non si svolgono più alla pari tra tutti i partiti politici indiani. Innanzitutto per la disparità delle risorse finanziarie di cui dispongono. Il Bjp ha speso nel 2019 più di tre miliardi e mezzo di dollari nella sua campagna elettorale. Più di tutti gli altri partiti messi assieme. Ci sono poi i grandi media del paese tutti schierati dalla parte del partito oggi al potere. Infine, le istituzioni statali che dovrebbero garantire l’imparzialità e la regolarità delle procedure (l’Election Commission, il Central Bureau of Investigation, la magistratura, e così via) sono ormai totalmente asservite all’esecutivo. Per i partiti di opposizione, sconfiggere Modi vuol dire dunque cercare di salvaguardare la democrazia.

 

“La democrazia indiana – ha detto non molto tempo fa Rahul Gandhi in una tavola rotonda che si è tenuta a Londra – è un ‘bene pubblico globale’. Siamo il solo popolo che sia riuscito a organizzare un sistema democratico di dimensioni senza uguali. Se la democrazia indiana andrà in frantumi – ha proseguito Rahul Gandhi – la cosa avrà ripercussioni in tutto il pianeta”. La marcia di Rahul ha avuto negli stati del sud dell’India un enorme successo. Ma ora è iniziata la sfida vera. La Bharat jodo yatra è arrivata negli stati del nord del paese dove predomina la lingua hindi e l’ideologia dell’“hindutva” con cui Bjp e Rss hanno seminato odio a piene mani tra la comunità hindu e quella musulmana. Il Bjp si è affrettato a definire la marcia di Rahul Gandhi “un vuoto esercizio”, “una campagna per salvare la ‘Famiglia’ (intesa come Sonia Gandhi e i figli Rahul e Priyanka)”, “la commedia del secolo”. Ma sono in molti, anche fuori dal Bjp, ad avere dubbi sull’efficacia di questa mobilitazione di massa. Si chiedono: riuscirà il Partito del Congresso a tramutare in voti la Bharat jodo yatra? E aggiungono: il Grand Old Party della politica indiana dispone ancora della “colla” necessaria per tenere unito il paese?

Di più su questi argomenti: